Approfondimenti · 18 Ottobre 2025

«Senza verità non c’è democrazia»: la storia russa di Irina Scherbakova

Fondatrice di Memorial e vincitrice del premio Friuli Storia, Scherbakova intreccia il racconto della sua famiglia con il Novecento sovietico, dal Terrore staliniano alla perestrojka, fino alle manipolazioni del passato nell’era di Putin

Andrea Gullotta intervista Irina Scherbakova

Irina Scherbakova è la vincitrice dell’edizione di quest’anno di Friuli Storia: il suo libro, intitolato Le mani di mio padre, è stato scelto da una giuria formata da più di 300 lettori. È la storia autobiografica della sua famiglia, dentro la quale si riflette però la grande storia dell’Unione sovietica e del Novecento.

Scherbakova è fra le fondatrici di Memorial, l’associazione nata nel 1989 per denunciare i crimini sovietici, vincitrice del premio Nobel per la pace nel 2022. In questa conversazione si è confrontata con Andrea Gullotta, professore di slavistica dell’Università di Palermo.

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Al centro di questo libro ci sono due aspetti particolarmente interessanti. Il primo è l’intersezione tra la storia della sua famiglia e la storia generale. Anche perché la sua non era una famiglia qualsiasi: in alcuni dei momenti descritti nel suo libro lei si è trovata in una posizione molto particolare. In secondo luogo, ho trovato affascinante il modo in cui la scrittura del suo libro è stata influenzata dalla sua esperienza come storica e attivista di Memorial, attività per cui ha raccolto tante biografie.

«Nel libro cerco di raccontare come gli eventi politici del ventesimo secolo sono stati determinanti nella vita della mia famiglia. A volte è difficile collocare con precisione nel tempo i ricordi dell’infanzia; ma i miei primi ricordi coscienti li posso ricollegare a un momento storico preciso, erano i giorni in cui stava morendo Stalin».

«Avevo tre anni e mezzo, lo ricordo bene perché è rimasto impresso in modo molto vivido nella mia memoria. Poiché la mia famiglia era estremamente politicizzata e tutto ciò che avveniva aveva un ruolo importantissimo, quasi centrale, nella loro vita, io sono cresciuta con la percezione dell’importanza della storia e del passato, e con la consapevolezza che vivevamo in una situazione che era profondamente influenzata dal passato. Un passato di cui c’erano molte cose che non sapevamo, ma che d’altra parte, con la guerra e il Terrore, aveva determinato il destino delle persone intorno a me».

«Mi sembrava che fosse un elemento molto importante nella mia vita personale e per comprendere la società in cui vivevamo. Abbastanza presto ho cominciato a interessarmene a livello amatoriale, a raccogliere testimonianze, a creare una sorta di archivio personale, non solo perché era la cosa che più mi interessava, ma anche perché mi sembrava molto importante. È quello che cerco di raccontare nel libro».

La sua descrizione del Terrore è molto vivida, anche se naturalmente non l’ha vissuto di persona. Ma suo nonno lavorava al Comintern, e sia lui che sua madre avevano degli amici che sono spariti nel nulla. Ho trovato molto significativo il racconto su come, alla fine, lei ritiene che la morte di suo nonno sia stata determinata proprio da questo senso di colpa venuto all’improvviso in superficie. 

«Mio nonno non era semplicemente un uomo di sinistra, credeva fanaticamente nell’idea della sinistra. Credo che in Italia si capisca cosa intendo».

«Lui, e le persone che aveva intorno, gli amici di allora che poi sono quasi tutti morti durante il Terrore, così come le amiche della nonna, erano convinti fino al midollo della necessità di costruire il “nuovo mondo sociale” e che la rivoluzione dovesse alla fine trasformarsi in una rivoluzione mondiale. Questa era stata l’idea dominante per mia mamma fin dalla nascita: come scrivo nel libro, era nata all’hotel Lux, per così dire al centro del proletariato mondiale».

L’ex Hotel Lux a Mosca
Di MartinPUTZ – Opera propria, CC BY-SA 3.0

Nel libro ci sono due fotografie di suo nonno, scattate a sette anni di distanza.

«La prima lo ritrae negli anni ‘20, quando aveva appena iniziato a lavorare al Comintern, la seconda dopo l’inizio del Grande terrore. Sembra un uomo di sessant’anni, non di 35. Lui non è stato arrestato durante il Terrore, ma essendo stato assistente di Dimitrov, doveva giustificarlo e spiegarlo: dire che c’erano delle motivazioni dietro. Che c’era il fascismo e la guerra civile in Spagna. Poi era scoppiata la guerra mondiale, ed era chiaro da che parte si dovesse stare».

«Alla fine credo che sia stato proprio questo tremendo sdoppiamento a ucciderlo. Perché era insopportabile la differenza fra quello per cui avevano combattuto e quello che invece era stato il risultato».

In mezzo ci sono state anche le vicende del ’56 in Ungheria: la primavera di Budapest soffocata nel sangue dalle truppe sovietiche.

«Sì, mio nonno era ancora vivo, ma subito dopo ebbe un infarto e un ictus, è successo davanti ai miei occhi. Conosceva bene i protagonisti di quelle vicende, tra cui Mátyás Rákosi (già dittatore della Repubblica popolare d’Ungheria, ndr). L’orrore di cui fu testimone, vedendo che regime e che partito avevano sostenuto nel nome di un’ideologia: fu questo a spezzarlo. Era un idealista e non poté sopravvivervi».

I suoi genitori la pensavano diversamente?

«Sì, sono stata fortunata, perché i miei genitori, in un certo senso, mi hanno spalancato la strada. La nostra famiglia era diversa da tante altre: non c’era quello scontro generazionale che porta i giovani a contestare le idee dei loro genitori, come accade ancora oggi, per esempio con la guerra in Ucraina». 

«Per me non è stato affatto così. La pensavamo allo stesso modo, ho saputo sin dall’inizio che erano state terribili illusioni, che il Terrore era stato spaventoso. I miei genitori naturalmente non speravano di assistere al crollo del regime comunista. Ne sono stati sorpresi e incredibilmente felici, ma non se lo aspettavano. Neanch’io me lo aspettavo».


Uno degli ideali, nella vostra famiglia, era di inseguire la verità storica contro le menzogne.

«All’epoca della perestroika, quando è nata Memorial, questo era il suo obiettivo principale: dare un nome alle persone, strapparle all’oblio e dire la verità su cosa era stato il Grande terrore, sulle repressioni politiche, su tutto».

«E sembrava che la società fosse d’accordo. Si è poi capito che importanza ha questo per le persone: senza la verità non è possibile avere una società intellettualmente sana, non possono esserci istruzione, riforme o democrazia. 

Quando invece prevale l’oblio, questo significa che, per varie ragioni, la società non vuole più seguire la strada della democrazia». 

Ed è quello che sta succedendo oggi in Russia?

«La situazione è difficile dappertutto, non solo in Russia. In Russia è semplicemente portata all’estremo, perché ha preso il potere una terribile dittatura. Ma se prendiamo le tendenze autoritarie, populiste, vediamo che abbiamo a che fare con una manipolazione continua della storia. Perché non si interessano alla storia solo coloro che, come noi, difendono la verità storica, ma anche i nostri avversari, quelli terribili come Putin, ma non solo».

«Dappertutto, in tutti i Paesi, la destra, l’estrema sinistra e naturalmente in particolar modo l’estrema destra manipolano la storia. E si richiamano in modo massiccio a una qualche mitologia storica. Ne tirano fuori figure con cui cercano di far riconciliare la società, o che cercano di trasformare in un esempio. In Germania è politicamente impossibile richiamarsi direttamente a Hitler. Ma si può fare in modo indiretto, come fa l’Afd, che sostiene che bisogna tornare al passato, a un’età dell’oro senza specificare a quale periodo storico si riferisca».

«In Italia c’è il richiamo a Mussolini. E così in Russia, con Putin che sta portando avanti un miscuglio di narrazioni storiche assolutamente opache».

Vorrei tornare ai suoi genitori. Nel libro lei descrive molto bene l’ambiente in cui vivevate: la vostra casa era frequentata da figure come Lev Kopelev (scrittore e dissidente sovietico) e Bulat Okudžava (cantautore e poeta), e questo mi ha colpito per due motivi.

Da un lato, lei è stata in un certo senso testimone della nascita della società civile in Unione Sovietica e poi in Russia. Dall’altro, lei racconta di una discussione accesa tra Kopelev e Naum Koržavin (poeta e dissidente), e aggiunge la frase: “Nessuno di loro divenne il nostro Václav Havel” (scrittore e presidente cecoslovacco, simbolo del dissenso).

Secondo lei, se fosse emersa una figura simile questo avrebbe potuto favorire lo sviluppo della società civile, o, da una prospettiva storica, le cose non potevano andare diversamente da come sono andate?

«Perché ho voluto parlare di Havel? Bisogna cercare di immaginare la situazione di quel tempo: le istituzioni erano deboli e cominciavano appena a prendere forma. Nel 1989 si erano svolte le prime elezioni semi-libere e, proprio per questo, le figure autorevoli avevano un ruolo molto importante».

«Servivano persone su cui poter fare affidamento: i cosiddetti “capomastri” della perestroika, tra cui anche i fondatori di Memorial. Sacharov aveva svolto un ruolo decisivo e la sua morte fu una perdita enorme, perché non emerse più un’altra figura come lui. C’erano molte personalità diverse, e questo sarebbe stato sufficiente se le istituzioni fossero state funzionanti. Ma poiché non lo erano – anzi, stavano appena prendendo forma ed erano state soffocate in breve tempo – quella fiducia riposta nelle persone, all’inizio della perestroika, aveva un peso fortissimo».

«Dentro Memorial avrebbe potuto esserci un’altra figura rilevante, per la sua biografia e la sua coerenza: Sergej Adamovič Kovalëv, che di fatto, dopo Sacharov, era rimasto l’unico ad avere un ruolo politico, in quanto presidente del Comitato per i diritti umani della Duma. Ma divenne presto chiaro che non riusciva a influenzare il corso degli eventi. E questa fu la tragedia. Per questo scrivo che noi non abbiamo avuto il nostro Havel. La società non era pronta. Abbiamo avuto Gorbačëv, che naturalmente non era Havel. Bisogna rendergli giustizia: ci ha provato, soprattutto in quel contesto. Ma quando ha staccato un sassolino dalla montagna, ne venne fuori  una valanga che finì per travolgere anche lui».

«Poi, purtroppo, emersero figure completamente diverse, che iniziarono a definire la direzione della società e ad acquisire influenza, senza però, ed è importante sottolinearlo, suscitare alcuna fiducia sul piano morale. I nostri oligarchi, e anche El’cin negli anni ’90, non godevano affatto della fiducia della società. Quasi nessuno. Per questo poterono affermarsi personaggi come Žirinovskij, molto tipico di quel periodo. Questo è uno dei tanti fattori per cui negli anni ’90 le cose andarono come andarono».

Come studioso di letteratura, mi sono molto piaciuti i suoi racconti su alcuni studiosi di letteratura, tra cui quello su [Nikolaj] Gudzij, che descrive il momento in cui il Paese si stava liberando di Stalin. Ma mi è rimasta questa impressione: forse questa risonanza di cui lei parla riflette anche una speranza che oggi la Russia sia nella stessa situazione di allora. Che la gente viva sotto il pugno di ferro di Putin e aspetti il momento in cui potrà liberarsi da questa presenza pesante. Cosa ne pensa?

«Ho vissuto tutta la mia lunga vita in Russia. Non ci sono stata in questi anni di guerra, che naturalmente sono stati importanti. Ma sento tutti i giorni persone che ci vivono ancora, amici e colleghi, mi vengono a trovare. Purtroppo alcuni elementi sono riconoscibili, tra cui le reazioni delle persone».

«So e vedo ogni giorno che sono rimaste molte persone, almeno tra quelle che conosco, che sono contro la guerra, contro Putin e contro la dittatura. Sono ovviamente una minoranza, ma ci sono. E sfruttano ogni occasione per leggere, ascoltare, aggirano i divieti su Internet con la VPN, frequentano le mostre; gli editori, anche se la censura incombe da ogni parte, cercano comunque di pubblicare qualcosa. E non sarò certo io a dire che tutto questo non ha alcun valore perché, come sostiene qualcuno, la Russia non ha chance, perché per la Russia resterà comunque sempre tutto com’è… »

«Ma c’è una cosa che rende la situazione ancora più complessa: dalla Russia è possibile andarsene. Spesso a caro prezzo sul piano umano. C’è chi non può farlo perché ha persone che non può abbandonare. Ma comunque il Paese non è chiuso, non è ermetico. Questo a volte mette le persone di fronte a una scelta molto dolorosa. E allora emergono risentimento, dolore e rancore».

«Conoscevo un sociologo straordinario, che era anche studioso di letteratura, Boris Dubin, che è mancato proprio all’apice degli eventi sanguinari del 2014, la guerra in Ucraina orientale. In un intervento da noi a Memorial, un paio di settimane prima di morire, ha detto che dopo gli eventi del 2014, perché la Russia abbia una possibilità che si realizzino dei cambiamenti nella società e si affermi la democrazia, il prezzo morale che la società dovrà pagare per uscire da questa situazione sarà molto alto. E molto più doloroso della perestroika degli anni ’90».

«Perché la gente, quantomeno la maggioranza, ha in larga misura normalizzato questa guerra e questa dittatura. Io ne sono sempre più convinta. Non penso che la Russia non avrà alcuna chance quando Putin morirà, potrebbero iniziare dei cambiamenti graduali. Ma perché la società scelga davvero un’altra strada servirà uno sforzo enorme. La questione della responsabilità, che ci accompagna da tutto il XX secolo e ora nel XXI, sarà un problema scottante. Non spero in cambiamenti rapidi».


IRINA SCHERBAKOVA – è nata nel 1949 a Mosca. Qui si è laureata in germanistica e ha insegnato Oral History all’università. Ha tradotto in russo Franz Kafka, Heinrich Boll e Christa Wolf. Dalla fine degli anni Settanta ha condotto interviste con i superstiti dei gulag e, dai primi anni Novanta, ricerche negli archivi del Kgb a Mosca. È tra le fondatrici di Memorial, associazione per i diritti umani e lo studio della repressione nell’epoca sovietica, a cui nel 2022 è stato conferito il premio Nobel per la pace.

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Andrea Gullotta

È professore associato all’Università di Palermo. In precedenza ha lavorato nelle università di Padova, Ca’ Foscari di Venezia e Glasgow. È autore di numerose pubblicazioni sulla letteratura, la cultura e la memoria del Gulag ed è direttore della rivista “AvtobiografiЯ”. Ha inoltre ricoperto il ruolo di co-presidente dell’associazione internazionale “Memorial”, erede di “Memorial International”, sciolta dallo Stato russo nel 2022. È principal investigator del progetto Literature of Socialist Trauma: mapping and researching the lost page of European literature, finanziato dal ministero dell’Università e della Ricerca nell’ambito del programma PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale).

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