Approfondimenti · 1 Novembre 2025

Genocidio: nascita, limiti e controversie di una parola che ha cambiato la storia

Dalle intuizioni di Raphael Lemkin ai conflitti del presente, un viaggio attraverso la storia del concetto di genocidio con lo storico Paolo Fonzi

Antonio Carioti intervista Paolo Fonzi

Il termine “genocidio” non è sempre esistito. Lo ha inventato Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, convinto che l’eliminazione sistematica di un popolo dovesse essere riconosciuta come un crimine distinto da ogni altro. La sua intuizione, rafforzata dall’esperienza della persecuzione nazista, portò nel 1948 all’approvazione della Convenzione delle Nazioni Unite, che per la prima volta impegnava gli Stati a prevenire e punire simili atrocità. 

Quella definizione ha portato fin dall’inizio con sé limiti, contraddizioni e controversie che ancora oggi alimentano il dibattito politico e storiografico. Conoscerne le origini aiuta a comprendere meglio anche le discussioni attuali.

Di questo si è occupato lo storico Paolo Fonzi, docente di Storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli, in un libro appena uscito per Laterza e intitolato semplicemente “Genocidio. Una storia politica e culturale”, come spiega in questa intervista con il Circolo della Storia.

Registrati al Circolo della Storia e non perderti più alcun contenuto!

Hai letto 3 articoli: registrati al Circolo della Storia per continuare a leggere i contenuti di approfondimento dedicati agli iscritti.


Fonzi, come racconta nel suo libro, il termine “genocidio” ha un’origine precisa, legata a un momento storico e a una figura in particolare: Raphael Lemkin, il giurista ebreo che lo coniò e ne fece il centro della sua battaglia.

La sua storia personale si intreccia con quella del concetto stesso. Lemkin nasce in una regione abitata da bielorussi, ebrei e polacchi ma ancora sotto l’Impero russo, un’area multiculturale e multietnica che lo storico Mark Levene ha definito “terre di mezzo” e Timothy Snyder ha invece definito Bloodlands, “terre di sangue”, per la frequenza di violenze etniche e massacri. A segnarne la formazione è anche la padronanza di diverse lingue, dall’ebraico al polacco allo yiddish, che diventeranno strumenti decisivi nella sua carriera giuridica.

Dopo la Prima guerra mondiale si afferma come giurista di rilievo in Polonia, partecipa a conferenze internazionali e discute con altri studiosi, tra questi il noto Vespasian Pella, colui che coniò il concetto di “giurisdizione universale”. La sua formazione lo accomuna a un altro grande giurista del Novecento: Hersch Lauterpacht.

La sua reputazione cresce, ma con l’invasione nazista della Polonia in cui viveva, nel 1939, è costretto a fuggire: prima in Lituania, poi, attraverso un lungo viaggio, negli Stati Uniti. Si salva, ma la maggior parte della sua famiglia cade vittima della persecuzione antisemita. Porta con sé due grandi valigie colme di documenti, con la legislazione nazista dei territori occupati.

Proprio da quella base nasce, nel 1944, Axis Rule in Occupied Europe. Non è un libro sulla Shoah, ma un’analisi delle strutture giuridiche imposte dalle potenze dell’Asse, Italia compresa, nei territori occupati. In un capitolo Lemkin introduce un concetto nuovo: il “genocidio”, dall’unione di “genos” e “-cidio”, cioè la distruzione di un intero gruppo.

In quel momento non insiste tanto sullo sterminio fisico, quanto sulla distruzione culturale: il suo sguardo coglie soprattutto il tentativo nazista di ridefinire la demografia e l’identità dell’Europa, attraverso politiche di denazionalizzazione e  l’imposizione della cultura tedesca ad altri popoli.

Dopo la guerra, Lemkin prova a far includere il genocidio nella carta del Tribunale di Norimberga e nelle accuse contro i principali criminali nazisti, ma senza successo: le accuse principali restano i “crimini contro la pace”, mentre i “crimini contro l’umanità” vengono limitati al periodo bellico. Uno dei suoi obiettivi era invece creare una fattispecie giuridica valida anche in tempo di pace, per punire gli Stati che perseguitano i propri cittadini.

Il punto di svolta arriva nel 1948, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la Convenzione per la prevenzione e la punizione del delitto di genocidio. Frutto di un intenso lavoro diplomatico e di instancabile lobbying da parte di Lemkin, la Convenzione definisce il genocidio come un crimine internazionale e vincolante per gli Stati, introducendo non solo la punizione, ma anche l’obbligo di prevenzione.

Il processo di Norimberga

Lei scrive che decidere se sia avvenuto un genocidio è una questione eminentemente politica. Perché?

Ogni trattato di diritto internazionale nasce da compromessi politici: sono gli Stati, in quanto sovrani, a stabilire e applicare le definizioni. Questo vale in generale, ma nel caso del genocidio è ancora più evidente.

Il termine, infatti, è uscito dall’ambito strettamente giuridico per entrare nel linguaggio politico e mediatico, molto più di concetti come “crimini contro l’umanità”. Lo dimostrano le numerose risoluzioni con cui parlamenti nazionali riconoscono ufficialmente un genocidio. Non hanno valore giuridico vincolante, ma hanno un peso politico enorme. È accaduto, per esempio, con l’aggressione russa all’Ucraina, che diversi parlamenti hanno definito genocidio, così come con eventi più lontani, come il caso armeno.

Il motivo è anche simbolico: nella nostra cultura parlare di genocidio significa evocare immediatamente la Shoah, considerata il paradigma del “male assoluto”. Definire un evento come genocidio significa collocarlo accanto a quel riferimento centrale della memoria collettiva.

La Convenzione del 1948 definisce genocidio “qualunque atto commesso con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Restano esclusi i gruppi politici e sociali. Non è una contraddizione, alla luce delle persecuzioni del Novecento?

Nelle prime bozze della Convenzione erano effettivamente inclusi anche i gruppi politici e sociali. Alla fine furono esclusi, soprattutto per la pressione dell’Unione Sovietica: se fossero rimasti, Iosif Stalin sarebbe stato facilmente accusabile per le persecuzioni degli anni Trenta. Anche diversi Stati latinoamericani si opposero, temendo di vincolarsi nelle proprie repressioni interne.

Lemkin stesso aveva delle riserve: considerava il concetto di “gruppo politico” troppo instabile per essere inserito nel diritto internazionale. Al contrario, riteneva fondamentale includere l’idea di “genocidio culturale”, cioè la distruzione sistematica di una cultura anche senza sterminio fisico. Ma anche questa proposta venne respinta, soprattutto per l’opposizione delle potenze coloniali.

Nonostante ciò, in varie legislazioni nazionali i gruppi politici sono stati successivamente inclusi. È il caso dell’Argentina, nei processi degli anni Duemila contro i responsabili della dittatura e delle sparizioni di massa, o della Romania nel processo a Ceaușescu. Inoltre, diversi studiosi, come Leo Kuper, hanno sostenuto esplicitamente l’estensione del concetto.

Per molte popolazioni ottenere il riconoscimento di essere state vittime di genocidio è una risorsa preziosa. In che senso?

Non è solo una questione di giustizia: il riconoscimento di genocidio ha un forte valore simbolico e politico. Viviamo in quella che è stata definita una “cultura vittimaria”, in cui la condizione di vittima conferisce legittimità e prestigio, tanto sul piano nazionale quanto su quello internazionale.

Questo status può avere conseguenze enormi.

Ad esempio, i popoli che lottano per l’indipendenza cercano spesso di far riconoscere la propria esperienza come genocidio per ottenere protezione e sostegno dall’esterno. In certi casi estremi, alcuni movimenti hanno persino avuto interesse a enfatizzare o provocare la violenza contro i civili, proprio per rafforzare la richiesta di riconoscimento come vittime di genocidio.

Entriamo nei casi concreti: armeni, greci, ucraini con l’Holodomor. Perché la stessa definizione di genocidio è stata invocata per situazioni così diverse?

Per quanto riguarda gli armeni, la maggior parte degli storici concorda: nel 1915 vi fu una volontà deliberata da parte delle autorità ottomane di eliminare una minoranza cristiana considerata alleata del nemico. Il riconoscimento come genocidio è oggi ampiamente condiviso.

Il caso greco è più complesso. Le violenze contro i greci avvengono soprattutto durante la guerra greco-turca, dopo il primo conflitto mondiale e la dissoluzione dell’Impero ottomano, quando l’esercito ellenico invade l’Anatolia in qualità di aggressore. In quella fase anche i greci compiono massacri contro i musulmani. Nel 1923 Grecia e Turchia sanciscono poi lo scambio di popolazioni, che di fatto cancella la presenza delle rispettive minoranze. Tutto ciò rende più difficile parlare di genocidio, anche se in tempi recenti, grazie soprattutto alla pressione della diaspora ellenica, si è spinto per quel riconoscimento.

Per l’Ucraina e l’Holodomor la questione è ancora diversa. Non si tratta di uno sterminio diretto, ma di una carestia che causò milioni di morti. Molti storici sostengono che non esistesse un piano iniziale di sterminio, ma che Stalin utilizzò la fame come strumento di repressione politica. La definizione di genocidio richiede una soglia molto alta di intenzionalità, e per questo gran parte della storiografia rimane prudente. Sul piano politico, invece, i riconoscimenti si sono moltiplicati soprattutto dopo il 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina.

E per i civili tedeschi, vittime di bombardamenti e deportazioni? Possiamo parlare di genocidio?

No, non secondo la Convenzione del 1948. Durante i negoziati era stata avanzata la proposta di includere la “rimozione forzata di popolazioni”, ma le grandi potenze si opposero, perché in quegli stessi anni stavano approvando lo spostamento di milioni di tedeschi dall’Europa orientale.

Anche i bombardamenti indiscriminati sui civili non furono contemplati, per evitare di condannare retroattivamente le azioni alleate. Solo negli anni Settanta, con i protocolli aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra, queste pratiche vennero riconosciute come “crimini di guerra”, ma mai come genocidio.

Arriviamo a Gaza. Perché il termine genocidio è usato così spesso in questo caso, più che in Siria, Tigray o Sudan?

Su Gaza la discussione è particolarmente accesa. Alcuni studiosi parlano apertamente di un “genocidio da manuale”, richiamando l’altissima percentuale di vittime civili, l’elevato numero di morti quotidiani e la sproporzione tra le forze in campo.

C’è però anche una dimensione politica. Israele è percepito da molti come un’eccezione giuridica, protetta dall’appoggio occidentale e quindi emblema dei doppi standard della comunità internazionale. Per questo accusarlo di genocidio diventa, per molti, anche un modo per contestare l’ordine globale.

L’uso del termine “genocidio” in questo caso si lega dunque sia a elementi fattuali sia al suo forte valore politico e simbolico, che per chi lo utilizza ne amplifica la forza

Scopri il libro

PAOLO FONZI – insegna Storia contemporanea presso l’Università di Napoli Federico II. È stato borsista presso lo Ukrainian Research Institute di Harvard e l’Università von Humboldt di Berlino. Ha scritto sulla storia del nazionalsocialismo, sulle occupazioni fasciste durante la seconda guerra mondiale e sulla storia delle carestie sovietiche del 1931-1933. Tra le sue pubblicazioni, La moneta nel grande spazio. Il progetto nazionalsocialista di integrazione monetaria europea 1939-1945 (Unicopli 2011), Fame di guerra. L’occupazione italiana della Grecia (1941-43) (Carocci 2020) e Oltre i confini. Le occupazioni italiane durante la seconda guerra mondiale (1939-1943) (Le Monnier-Mondadori Education 2020).

© Riproduzione riservata

Avatar
Antonio Carioti

È giornalista professionista. Dopo aver intrapreso la professione alla «Voce Repubblicana», ha lavorato per oltre vent’anni al «Corriere della Sera». Tra le sue pubblicazioni: Di Vittorio (il Mulino, 2004), Gli orfani di Salò (Mursia, 2008) e I ragazzi della Fiamma (Mursia, 2011). Per l’editrice Solferino ha pubblicato il libro intervista con Marco Tarchi Le tre età della Fiamma (2024) e alcuni volumi sul fascismo: Alba nera (2020), La guerra di Mussolini (con Paolo Rastelli, 2021), Come Mussolini divenne il Duce (2023), 40 giorni nella vita di Mussolini (2025). A febbraio del 2026 uscirà una sua biografia di Giovanni Amendola, edita da Laterza.

Scopri tutti gli articoli