Approfondimenti · 9 Novembre 2024

Cosa resta delle Solovki

Con Andrea Gullotta, storico a lungo presidente di Memorial, ricostruiamo la storia del campo di lavoro che è diventato un modello per tutta l'Unione sovietica e che ancora oggi è il sinonimo di un periodo fra i più terribili della storia contemporanea

Tommaso Piffer intervista Andrea Gullotta

C’è un luogo sperduto nel mar Bianco dove un antico monastero si è trasformato nel cuore di un sistema di prigionia e lavoro forzato che ha fatto centinaia di migliaia di morti. Di questa storia rimane traccia nei libri, ma chi volesse andare a vedere tutto questo di persona, oggi troverebbe soltanto una memoria appassita, in cui è difficile ritrovare la testimonianza di quello che è stato. Bisogna conoscere molto bene la storia per riuscire a identificarla, guardando quelli che oggi sono ristoranti e negozi e che un tempo erano le baracche di un campo di prigionia diventato un modello da esportare in tutta l’Unione Sovietica.

In questo episodio della newsletter parliamo delle isole Solovki, dove negli anni Venti venne costruito un enorme campo di prigionia, requisendo un luogo sacro di cui gli zar erano devoti. L’arcipelago si trova nell’estremo nord della Russia, immerso nel mar Bianco, al largo della città di Arcangelo, che è la capitale della regione e si trova a 300 chilometri di distanza. Ogni zona aveva la sua drammatica funzione: c’erano le baracche, l’orto botanico e il golgota dove venivano lasciati i moribondi. Il campo femminile era separato da quello maschile.

Ne abbiamo parlato con Andrea Gullotta, professore di slavistica dell’Università di Palermo e fino ad aprile presidente della sezione italiana di Memorial, l’Ong creata in Russia per conservare la memoria storica e che oggi è stata parzialmente sciolta per via giudiziaria dalla procura generale della Federazione Russa. Fino a giugno è stato anche co-presidente del nuovo Memorial Internazionale.

Lo abbiamo fatto a pochi giorni dal 29 ottobre, data in cui in tutto il mondo si svolge la “Restituzione dei nomi”, la manifestazione dedicata al ricordo delle vittime del Terrore di Stato in Unione Sovietica. Ogni anno, in Russia e nel mondo, soci, volontari e attivisti di Memorial si raccolgono per leggere ad alta voce i nomi delle persone che hanno perso la vita per mano delle autorità sovietiche. La prima Restituzione dei nomi si è svolta proprio accanto alla Pietra delle Solovki, un monumento alle vittime delle repressioni politiche collocato di fronte alla Lubjanka, sede dei servizi segreti, prima sovietici e ora russi.

Gullotta, qual è il significato della Restituzione dei nomi e perché ha una connessione molto stretta proprio con la storia delle Solovki?

È una delle iniziative più importanti di Memorial, nata spontaneamente già negli anni della Perestrojka. Durante una delle tante manifestazioni dedicate alle vittime del terrore, ci fu chi iniziò a leggere i nomi di queste vittime. Si cominciò così, in maniera “rudimentale”, con l’obiettivo di riportare queste persone al di fuori dell’oblio, per ridare a loro una nuova dignità pubblica. Negli anni questa tradizione si è consolidata e dal 2007 è diventata una manifestazione di Memorial, che si svolge in Russia e in tutto il mondo. 

Ma il luogo principale, fin dall’inizio, è stato di fronte alla pietra delle Solovki, un grosso masso che è stato preso dalle Solovki e portato a Moska, di fronte al palazzo della Lubjanka. 

In tutto l’universo dei campi di concentramento dell’Unione Sovietica le Solovki hanno sempre avuto un ruolo speciale. Da cosa nasce?

Per capirlo dobbiamo partire dall’inizio di questa vicenda. Nei primi anni successivi alla rivoluzione sovietica, lo Stato fece da subito migliaia e migliaia di arresti, un po’ perché il contesto era quello della guerra civile, e un po’ perché ci fu immediatamente una forte repressione di stampo ideologico. Gli arresti furono talmente tanti che, nel giro di poco tempo, le prigioni zariste non erano più sufficienti. Per cui si iniziarono a cercare soluzioni avventurose, come scantinati di palazzi o fabbriche abbandonate.

Poi finì la guerra civile.

Sì, e lo Stato si rese conto che doveva affrontare il problema. Anche perché esistevano già dei campi dove si faceva del lavoro forzato, ma i costi erano altissimi e il lavoro era inefficiente. Con una decisione presa al massimo livello, dal Sovnarkom (ovvero l’equivalente sovietico del consiglio dei ministri), si decise allora di creare alle Solovki un campo “a destinazione speciale”. L’obiettivo principale era proprio quello di sviluppare un sistema di utilizzo del lavoro forzato dei prigionieri che potesse portare a un ritorno economico. Lo stato voleva gestire i campi praticamente a costo zero o addirittura facendo fare dei profitti.

Quindi le Solovki diventarono un modello?

Esatto. Questo campo viene spesso definito erroneamente come il primo Gulag. In realtà, non era affatto il primo, ma quello dove un certo modello è stato creato e poi esportato. Per riuscirci il campo venne affidato alla polizia politica, ai tempi era la Gpu, erede della Čeka. Quella che poi nel tempo diventerà l’Nkvd e infine il Kgb. In un primo tempo l’organizzazione fece fatica a raggiungere il suo obiettivo, i lavoratori si occupavano soprattutto di raccogliere il legname che permetteva almeno di fare qualche introito, ma non era sufficiente per coprire tutte le spese. Poi un imprenditore che era prigioniero nel campo,  Naftalij Frenkel’, iniziò a collaborare con gli amministratori e diede una serie di indicazioni che permisero di trovare la “soluzione”. 

E quale fu la svolta?

Una delle due scelte fondamentali fu quella di utilizzare il lavoro forzato non soltanto dentro ai campi, ma anche all’esterno. Cosa che prima non avveniva per la resistenza delle imprese locali, che non volevano la concorrenza dei carcerati. A livello nazionale, il lavoro forzato diventò così uno dei motori dei piani quinquennali, permise la costruzione di strade, dighe, centrali elettriche e complessi industriali. Inoltre Frenkel teorizzò la sistematizzazione di quella che fino ad allora era solo un’usanza: il cibo venne razionato e concesso ai prigionieri solo in proporzione al lavoro fatto. Questo garantì allo Stato minori spese, ma condannò a morte migliaia di persone.

Il campo delle Solovki non venne però aperto nel nulla, ma dove si trovava un antico monastero. Come si integrò con il campo?

In effetti da subito la scelta delle Solovki fu importante soprattutto dal punto di vista simbolico. Perché qui c’era un monastero fondamentale della tradizione ortodossa, con il quale la famiglia zarista aveva un legame, tanto che veniva spesso in visita. L’arcipelago aveva una forte aurea di santità che si perdeva nel tempo e da subito, dopo la rivoluzione d’ottobre, gli esponenti del nuovo sistema politico fecero visita alle Solovki per fare alcune requisizioni. Per qualche tempo, però, il monastero non venne chiuso e i monaci continuarono a viverci.

Poi cosa successe?

Successe che il governatorato di Archangel’sk, dentro il quale risiede l’arcipelago, iniziò ad avere sempre più interesse ai possedimenti del monastero e organizzò, sempre più frequentemente, spedizioni e requisizioni. Tanto che, quando arrivò da Mosca l’editto che sancì l’apertura del campo, al monastero scoppiò un misterioso incendio. A quanto pare, secondo molti storici, le fiamme dovevano coprire le tracce delle razzie fatte dai funzionari locali.

Poi però il campo venne aperto. E che ne fu dei monaci?

Il monastero cessò di esistere formalmente, ma in un primo momento i monaci non solo non vennero arrestati, ma furono persino utilizzati per alcune delle attività produttive del campo, soprattutto quelle che non potevano fare i prigionieri, come il controllo della posta: i criminali spesso rubavano, i monaci no. Nel tempo il campo si estese all’intero arcipelago, venne costruito il villaggio dei lavoratori e il monastero diventò il cuore dell’amministrazione. A questo punto anche i monaci vennero arrestati, ma continuarono a dedicarsi ad alcune particolari attività che non potevano essere affidate agli altri.

Il campo alle Solovki in realtà chiuse abbastanza presto.

Già nel 1939, perché iniziò la guerra con la Finlandia e l’arcipelago si trovava troppo vicino al confine. Sotto la Perestrojka si cominciò a recuperare il monastero. E poi tornò a rifiorire dopo il crollo dell’Unione sovietica, inizialmente avviando un lavoro di memoria sui Gulag che però si interruppe quasi subito.

Come mai?

Ci sono varie versioni. C’è chi dice che dipenda dal fatto che si tratti di un passato troppo scomodo. Secondo me, molto più banalmente, le Solovki ambirono sin da subito a ritrovare quell’aurea di santità che avevano perduto. La narrazione sui Gulag si inseriva male in questo contesto. Io ho come l’impressione che in maniera naturale, non in base ad un progetto specifico calato dall’alto, i monaci si siano concentrati soprattutto sul recupero del monastero. Per altro questo aspetto è perfettamente in linea con quelle che sono le indicazioni generali di Vladimir Putin sul trauma del Gulag: bisogna perdonare e andare avanti.

Chi va oggi alle Solovki cosa può vedere?

Riconosce le baracche se sa che lo erano, altrimenti vede case e negozi. Può mangiare del salmone dove un tempo dormivano i prigionieri. Vede il monastero e può sapere che era il centro di un Gulag, altrimenti vede soltanto un monastero. Ora c’è un museo del Gulag, che io personalmente non ho visto ma che mi dicono sia abbastanza piccolo. Poi, se gira per l’arcipelago, può trovare i resti dei binari del treno che raggiungevano il campo, la scalinata da dove venivano gettati i condannati a morte. Si vedono anche i resti dell’eremitaggio dove stavano i prigionieri politici e qualche altro reperto. Ma tutto questo lo devi sapere, non c’è scritto nulla. Dietro al monastero c’è giusto una pietra, messa da Memorial, con quattro fiori. E basta.

Però c’è una testimonianza preziosa di cui tu ti sei occupato. Che è quella di chi nel campo ha fatto attività letteraria.

È una delle poche cose belle. Le teorie repressive dello stato sovietico prevedevano anche la rieducazione culturale. Tutti quanti i campi avevano un teatro, una scuola, un club e pubblicavano riviste e giornali. In teoria per dimostrare come ci fosse una forma di rieducazione, ma in realtà spesso i prigionieri li utilizzavano per pubblicare cose nuove e trovare così un modo per provare a sopravvivere all’orrore. Riuscivano a fare poesie, a scrivere racconti, a fare studi di flora e fauna. Esisteva una società scientifica creata dal campo che ha promosso ad esempio studi sulla flora e sulla fauna. Il grande scienziato e poeta Florenskij, spesso chiamato il “Leonardo da Vinci russo”, era un detenuto delle Solovki, dove riuscì a fare degli studi sul ghiaccio perenne.

Questo sistema per quanto andò avanti?

Relativamente per poco, fino all’inizio dell’era staliniana. Poi rimarrà formalmente in piedi, ma con un maggiore controllo, una forte politicizzazione e minore libertà. Ma i detenuti non smetteranno mai di fare letteratura. Anche nei campi peggiori, anche di fronte alle torture, mentre i compagni venivano fucilati o morivano di fame come le mosche, molti detenuti continueranno a comporre poesie a memoria. Saranno poesie mentali, di cui abbiamo qualche traccia. Ci saranno sopravvissuti che scriveranno memorie, romanzi e racconti. È una pagina che fa intravedere un minimo di bellezza umana di fronte all’orrore. Ed è un aspetto che secondo me vale sempre la pena di indagare.

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Tommaso Piffer

Professore associato di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Udine. Prima di prendere servizio a Udine è stato Marie Curie fellow a Harvard e Cambridge, ricercatore della Higher School of Economics a Mosca e Bodossakis Junior Research Fellow del Churchill College di Cambridge. La sua ultima pubblicazione è Sangue sulla resistenza. Storia dell’eccidio di Porzûs (Mondadori, 2025).

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