Approfondimenti · 17 Maggio 2025
Dall’identità plurale all’esodo: storia dell’italianità di frontiera

Lo storico Raoul Pupo racconta la parabola dell’italianità adriatica, tra costruzione nazionale, repressione fascista, guerra nei Balcani e catastrofe del dopoguerra
Dopo la presa del potere di Tito in Iugoslavia, decine di migliaia di italiani che vivevano in Istria e in Dalmazia furono costrette a lasciare le loro case. Era l’epilogo di una storia iniziata molto prima, fatta di convivenze e fratture, appartenenze multiple e progetti nazionali contrapposti.
Nel suo nuovo libro Italianità adriatica. Le origini, il 1945, la catastrofe (Laterza, 2025), lo storico Raoul Pupo ricostruisce la genesi e l’evoluzione dell’italianità lungo l’Adriatico orientale, dalle radici storiche e culturali alla sua scomparsa, passando per l’irredentismo, il fascismo e le occupazioni nei Balcani. Il libro è stato presentato questa settimana a Udine: riprendiamo qui alcuni passaggi della conversazione dell’autore con Tommaso Piffer
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A dispetto di quanto si pensa, l’identità del singolo così come quella delle collettività non sono qualcosa di innato o immutabile. Questo è vero tanto più per l’identità nazionale, che nasce nella forma che conosciamo oggi in un preciso momento storico.
«L’identità è sempre un fenomeno complesso e, spesso, multiplo. Non esiste un’identità monolitica. Si può essere friulani e italiani allo stesso tempo: ci possono essere identità concorrenti. Quando si parla di “italianità” bisogna poi chiarire cosa si intende: se ci riferiamo a un’identità culturale e linguistica, questa ha radici molto antiche, che risalgono alla romanizzazione».
«Ma l’identità nazionale italiana, quella politica, è invece un fenomeno più recente, che nasce dopo la caduta della Repubblica di Venezia, nel 1797. Da quel momento si comincia a sostituire l’idea di patria veneziana con quella italiana. Ma ci vogliono decenni. In molte aree – come ad esempio a Trieste – l’italianità politica si afferma solo tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento. E anche allora, con molte sfumature e resistenze».
Questa nuova identità collettiva italiana chiede da subito un riconoscimento politico?
«Esattamente. Come accade per molti movimenti collettivi, anche l’identità nazionale, una volta formata, chiede di contare: vale a dire, venir riconosciuta come soggetto politico e quindi partecipare al processo decisionale per tutti ciò che la riguarda, vale a dire al potere. È successo anche ad altri fenomeni identitari, non solo quelli nazionali: pensiamo ai giovani del movimento del Sessantotto, o al movimento femminista».
«A questo punto però cominciano i problemi, perché il riconoscimento politico implica spesso l’esclusione dell’altro. Ad esempio, quando in una realtà fortemente plurale dal punto di vista linguistico, culturale e della stirpe, una o più identità nazionale si strutturano politicamente, i rapporti con chi non vi si riconosce diventano molto complicati. La convivenza si incrina, i margini di tolleranza si restringono, e si avvia un processo che, in molti casi, conduce al conflitto».

È una strada segnata? Oppure era possibile la convivenza tra identità nazionali diverse all’interno di uno stesso progetto politico?
«Non credo fosse una strada obbligata. Molto dipende dalle scelte delle persone, e in particolare dei gruppi dirigenti. Ma conta anche il contesto storico, e quello tra fine Ottocento e inizio Novecento non era favorevole né alla plurinazionalità né alla tolleranza. La crisi vissuta dagli italiani nella Venezia Giulia è simile a quella sperimentata in tutto l’Impero asburgico, caratterizzato da una serie di poli nazionali emergenti. Si sviluppano processi di nazionalizzazione parallela e competitiva, che attraversano le comunità e, talvolta, dividono persino le famiglie, spingendo ciascuno a scegliere un’appartenenza nazionale».
«Le identità nazionali diventano come nuove religioni civili, le religioni della patria, che si sovrappongono e magari superano le appartenenze precedenti, proponendo un nuovo Assoluto cui tutto sacrificare, magari anche la propria vita e quella degli altri».
«Poteva andare diversamente? Teoricamente sì, forse se fossero andati a buon fine i progetti di riforma federale dell’Impero. Ma anche questi avevano dei limiti: la maggior parte di quei progetti prevedeva la creazione di entità regionali dominate da una nazionalità maggioritaria, ma lasciando sempre delle minoranze».
«Forse l’unica proposta davvero risolutiva era quella dei socialisti, che puntavano a costruire ripartizioni il più possibile omogenee dal punto di vista nazionale, garantendo allo stesso tempo diritti nazionali per tutti, ovunque ci si trovasse. Ma quella è rimasta un’utopia. Le spinte divergenti sono state più forti: questa è la storia del Centro Europa».

Dall’italianità vittoriosa della prima guerra mondiale a quella “tiranna” del fascismo, che reprime in modo feroce le minoranze nazionali all’interno dello Stato italiano. C’è una specificità del fascismo in questo o è un frutto del tempo?
«Il fascismo rappresenta una radicalizzazione di una tendenza già presente. Già dopo il 1918 lo Stato italiano mira alla “nazionalizzazione integrale”, ma con una certa gradualità. Con l’avvento del regime, si passa all’assimilazione forzata».
«La diversità linguistica e culturale scompare: non c’è più il bilinguismo, non ci sono scuole o giornali per le minoranze. L’obiettivo è che, nel giro di una generazione, tutti diventino italiani».
«Questo avviene in un contesto europeo più ampio, in cui nascono gli Stati-nazione, costruiti per una sola nazionalità. Gli altri? Sono visti come ostacoli. E vanno fatti sparire, fisicamente o culturalmente».
«L’italianità “tiranna” è quella che non tollera la diversità, e la sopprime in nome dell’omologazione. Di suo, il fascismo mette la specificità di un regime autoritario con ambizioni totalitarie e quindi nelle aree di frontiera gli appartenenti alle minoranze subiscono una doppia oppressione: quella comune a tutti gli italiani non fascisti e quella specifica snazionalizzatrice condotta con molta durezza».

C’è poi l’italianità “imperiale”, quella che occupa i Balcani dopo il 1941. Che natura ebbe questa occupazione?
«Ambigua e contraddittoria. In alcune zone, come la Bosnia, le truppe italiane proteggono la popolazione serba dalle stragi degli uštaša croati. In altri casi, come in Slovenia o Montenegro, reprimono la resistenza partigiana con ferocia. Le direttive italiane sono talvolta più dure di quelle tedesche: prevedono fucilazioni di ostaggi, incendi di villaggi e deportazioni di intere comunità».
«I campi di internamento italiani non erano campi di sterminio, ma la mortalità era altissima, per fame e malattie, tenendo presente che i reclusi erano per la maggior parte anziani, donne e bambini, che le madri vedevano morire fra le loro braccia».
«Dunque, né “italiani brava gente” né “peggio dei nazisti”: dipende dai luoghi, dalle fasi e dagli interlocutori. Ma è una pagina comunque assai oscura e per questo rimossa della nostra memoria collettiva».

Dopo il 1945 arriva la catastrofe: l’italianità adriatica viene spazzata via. Questo processo è un nuovo capitolo dello scontro nazionale ma anche dell’affermarsi della rivoluzione socialista.
«È vero, non si può ridurre tutto alla dimensione nazionale. Certo, c’è uno scontro tra nazionalità: sloveni e croati prendono il potere, è l’ora della rivincita e la presenza italiana viene percepita come ostile».
«Ma c’è anche un’altra dinamica fondamentale: la rivoluzione socialista. In quel contesto, l’italianità adriatica viene identificata con le classi dominanti, con il clero, con la borghesia urbana, con la cultura del potere, insomma con l’ordine sociale precedente. Tutto questo deve venire distrutto per consentire la costruzione di un potere assolutamente nuovo, in cui agli italiani – o meglio, soltanto ad una piccola parte di loro – veniva riservato solo un ruolo subordinato e marginale».
«L’esodo è una conseguenza diretta di questa combinazione tra rivalsa nazionale e rivoluzione sociale, perché in entrambi i casi i nemici sono sempre gli stessi e cioè gli italiani».
«Lo Stato jugoslavo non ha mai decretato formalmente un’espulsione di massa degli italiani, ma prima ha potato drasticamente il gruppo nazionale italiano distruggendo la sua classe dirigente nel senso più ampio del termine e poi ha cercato di imporre a tutti un’identità alternativa, incompatibile con quella storica. Per restare, bisognava rinnegare la propria cultura, la propria storia, la propria appartenenza, anche solo a livello simbolico. Per quasi tutti fu inaccettabile, anche perché tutta l’operazione venne condotta con un grado elevato di violenza».

Due dinamiche diverse e sovrapposte quindi, eppure nella memoria degli esuli lo scontro nazionale ha un ruolo che rimane centrale, come mai?
«Perché il conflitto nazionale ha radici più antiche, già ottocentesche. Esisteva, da entrambe le parti, la narrazione di una minaccia: per gli italiani, quella slava; per gli slavi, quella italiana. E queste minacce, nel corso del Novecento, sembrano in qualche modo realizzarsi entrambe. Dopo la Prima guerra mondiale, ad esempio, la minaccia italiana nei confronti degli slavi diventa concreta. Poi, nel 1943, quando i partigiani slavi prendono il potere in Istria, si verificano le prime ondate di violenza, con le foibe istriane e poi su scala molto più grande nel 1945 con le foibe giuliane».
«Nella memoria collettiva italiana, tutto questo finisce per essere interpretato come una profezia che si avvera. E lo stesso vale per l’esodo: quando le comunità italiane sono costrette ad abbandonare Fiume e l’Istria, la catastrofe viene interpretata come risultato di un disegno preventivo di cancellazione della presenza italiana da parte del nazionalismo sloveno e croato fatto proprio dal regime di Tito».
«Questa lettura lineare è assolutamente comprensibile dal punto di vista delle percezioni e del loro consolidamento nella memoria, ma per lo storico il quadro è più articolato. Il progetto originario da parte jugoslava non era l’eliminazione di qualsiasi forma di presenza italiana, ma la distruzione dell’italianità adriatica così come si era formata nel corso dei secoli in forma assolutamente egemonica. I due aspetti però erano così saldamente intrecciati che spazzare via l’italianità storica significava distruggere le basi di qualsiasi presenza italiana».
Raoul Pupo ha insegnato a lungo Storia contemporanea all’Università di Trieste. Si occupa di storia della politica estera italiana, della frontiera adriatica, delle occupazioni italiane nei Balcani e degli spostamenti forzati di popolazioni in Europa nel Novecento.
Tra le sue più pubblicazioni: Il lungo esodo (Bur, 2005), Fiume città di passione (Laterza, 2018), Trieste ’45 (Laterza, nuova edizione 2023, vincitore del Premio Friuli Storia 2019) e appunto Italianità adriatica. Le origini, il 1945, la catastrofe (Laterza, 2025).