Approfondimenti · 15 Novembre 2025
Guerra e pace. L’uomo riuscirà mai a smettere di combattere?
Gianluca Sadun Bordoni e Roberto Della Seta a confronto: tra natura umana, Stato e opinione pubblica. La pace riuscirà mai a trionfare sulla guerra?
La guerra accompagna l’umanità fin dalle sue origini. Ma è davvero un tratto ineliminabile della natura umana o è un fenomeno che la cultura e l’evoluzione possono superare? In questo confronto, organizzato dal Circolo della Storia, ne discutono Gianluca Sadun Bordoni, professore ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Teramo, e autore del libro Guerra e natura umana. Le radici del disordine mondiale (Il Mulino). E Roberto Della Seta, autore di Pacifismi. Storia plurale di un’idea controversa, appena uscito per Mimesis.
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La guerra è un fenomeno che ha sempre affascinato gli studiosi. Lei, professor Sadun Bordoni, l’ha affrontata da un punto di vista antropologico. Cosa ha scoperto?
SADUN BORDONI: «Nel mio libro ho scelto due approcci: uno più politico, di cui magari parleremo dopo, e uno più antropologico. Tutto parte da una domanda che mi incuriosiva: perché la guerra torna sempre? È un interrogativo che ha una lunga tradizione, la stessa che si posero gli europei dopo la scoperta del Nuovo Mondo, quando si accorsero che anche civiltà lontane, e popoli non civilizzati, conoscevano la guerra. Kant e Diderot lessero con grande attenzione i resoconti degli esploratori delle Americhe e dei mari del Sud. Ma si può andare ancora più indietro: agli storici greci che descrivevano le abitudini violente dei popoli misteriosi con cui venivano a contatto».
Gli antropologi e gli archeologi hanno confermato queste intuizioni antiche?
SADUN BORDONI: «Sì, direi di sì. Le scoperte recenti vanno tutte nella direzione di confermare intuizioni che l’umanità aveva da tempo».
Può farci un esempio concreto?
SADUN BORDONI: «Partiamo dall’archeologia, che negli ultimi anni ha fatto enormi passi avanti. Nel libro cito un sito in Kenya, Nataruk, risalente al Paleolitico. È una scena scioccante: sono stati trovati resti umani con mani e piedi legati o e con le ginocchia spezzate. È la prova di un massacro. E ci dice che la guerra appartiene alla nostra specie fin dalle origini: la troviamo in tutte le forme di società conosciute, dai cacciatori-raccoglitori alle società agricole, fino alle civiltà industriali. E se cerchiamo le radici della violenza in generale, possiamo risalire ancora più indietro: almeno a 800 mila anni fa, prima ancora dell’Homo sapiens».

Dunque, la guerra non è un’invenzione culturale, ma un tratto profondo della nostra natura. Il pacifismo, invece, compare ad un certo punto della storia. Professor Della Seta, quando nasce questa idea?
DELLA SETA: «Il termine “pacifismo” appare per la prima volta in Francia nel 1901. La prima definizione risale al 1907. Ma l’idea della “pace perpetua” come aspirazione è molto più antica: comincia a delinearsi già nel Settecento, forse anche prima».
In che senso?
DELLA SETA: «Credo che la parola chiave sia “cosmopolitismo”. A partire da Kant, ma anche da Erasmo da Rotterdam, si afferma l’idea di una fratellanza universale tra tutti gli esseri umani, a prescindere da etnia o provenienza. Su questa base si costruisce poi la riflessione sulla pace come progetto istituzionale, giuridico e politico».
Così nasce l’idea del pacifismo. Ma il movimento pacifista quando prende forma?
DELLA SETA: «Io ho individuato in Tolstoj il costruttore più importante del pacifismo moderno, come idea politica e filosofica. Nell’Ottocento, quell’idea diventa un movimento, anche se resta per molto tempo confinata alle élite».
Eppure lei sostiene che il pacifismo abbia avuto un successo sostanziale. In che modo?
DELLA SETA: «Ha avuto successo soprattutto in Occidente, grazie al peso crescente dell’opinione pubblica sulla politica. Oggi, per la quasi totalità degli europei, l’idea di partecipare personalmente a una guerra è semplicemente impensabile. È difficile parlarne in un momento come questo in cui la guerra divampa alle porte dell’Europa: ma proprio lo spaesamento suscitato in noi europei dai conflitti in Ucraina e a Gaza mostrano che per i popoli del “vecchio continente” la guerra è un disvalore assoluto. E questo è merito del pacifismo».

Professore Sadun Bordoni, lei però sostiene che, a differenza di altri fenomeni superati, come la schiavitù, la guerra non potrà mai essere eliminata. Perché?
SADUN BORDONI: «Non credo che la natura umana sia un’essenza immutabile, ma è il prodotto di un’evoluzione. La guerra è un comportamento di “violenza di coalizione”, raro nel mondo animale. La violenza interpersonale è diminuita enormemente nei secoli, ma questo declino è merito dello Stato. Nell’arena internazionale, dove uno Stato sovraordinato non esiste, le organizzazioni internazionali restano impotenti».
Però lo Stato è influenzato dall’opinione pubblica. Non può lo stesso meccanismo agire anche tra Stati?
SADUN BORDONI: «La costruzione dello Stato implica una rinuncia alla libertà individuale, come ricordava Hobbes: un sacrificio funzionale in cambio di sicurezza. Ma questo sacrificio, che accettiamo all’interno dello Stato, è difficilmente ripetibile su scala internazionale. Gli Stati non vogliono rinunciare alla propria sovranità, se non davanti a una minaccia esistenziale. Nella storia europea, infatti, si sono sempre alleati tra loro, ma non si sono mai sottomessi stabilmente a un potere superiore».
Professor Della Seta, condivide questa visione?
DELLA SETA: «In parte. È vero che manca un soggetto in grado di imporre la pace, ciò che Norberto Bobbio chiamava “il terzo assente”. Ma esistono esperienze in cui gli Stati rinunciano a una parte della propria sovranità, così nell’Unione europea. Poi ripeto: dove le opinioni pubbliche influenzano direttamente le decisioni politiche, l’aspirazione alla pace tende ad affermarsi. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno interrotto la guerra in Vietnam anche per la spinta popolare. La vocazione alla guerra è umana, ma non biologicamente inevitabile. L’evoluzione culturale ha già prodotto trasformazioni radicali nei nostri comportamenti e nel modo di pensare la pace».

Sadun Bordoni, in effetti anche la cooperazione è un tratto naturale dell’uomo, non è così?
SADUN BORDONI: «Certo. Ma la cooperazione può avere sia un significato positivo sia negativo: si può cooperare per il bene comune o per uccidere. Anzi, la cooperazione è alla base stessa del conflitto. L’uomo ha probabilmente scoperto la forza della coalizione nella caccia, e l’ha poi applicata alla guerra. Cooperiamo per sopravvivere, ma anche per combattere. Conflitto e cooperazione hanno radici comuni nella nostra storia naturale».
E il sacrificio? Anche quello è parte della natura umana?
SADUN BORDONI: «Sì. Esiste il sacrificio parentale, che serve a preservare i propri geni, ma anche quello collettivo: quando ci si sacrifica per difendere il proprio gruppo, se il proprio ‘successo’ dipende da quello del gruppo. Certo, non tutto si spiega con l’antropologia. L’Illuminismo aveva però supposto che alcune forze storiche– la democrazia e l’integrazione economica – potessero spingere verso il superamento della guerra. Kant pensava che i popoli, più che i sovrani, fossero contrari al conflitto. E che il commercio rendesse la guerra irrazionale. Ma la storia ha mostrato la fragilità di queste speranze. Resta da vedere se l’opinione pubblica è davvero capace di influenzare le relazioni internazionali».

Professor Della Seta, lei distingue tra forme diverse di pacifismo. Può spiegarcele?
DELLA SETA: «Sì. Esiste un pacifismo etico assoluto – quello di Tolstoj o di Gandhi – che vede la pace come valore morale inderogabile. E poi un pacifismo utilitarista, più diffuso, che considera la pace come interesse comune. All’inizio del Novecento, in molte associazioni pacifiste erano presenti esponenti del pensiero liberista, convinti che la cooperazione economica fosse un antidoto alla guerra. Entrambe le sensibilità hanno a che fare, come detto, con l’evoluzione culturale: la guerra non è mai scomparsa dal mondo, ma l’umanità sempre di più la vede come una sventura dopo averla percepita e celebrata per secoli come virtù ed eroismo».
Nel suo libro, però, lei parla anche di forme “degenerate” di pacifismo. A cosa si riferisce?
DELLA SETA: «Mi riferisco a quello che chiamo pacifismo “strabico”: un pacifismo selettivo, che cambia posizione a seconda di chi sia l’aggressore. Si prova empatia per Gaza, ma meno per l’Ucraina. È lo stesso atteggiamento che si vedeva nel 1968: tutti solidali con il Vietnam contro gli Stati Uniti, molto meno con la Cecoslovacchia contro l’Unione sovietica».
E il cosiddetto “nazional-pacifismo”?
DELLA SETA: «È una forma ancora diversa. Nell’Ottocento il pacifismo tradizionale denunciava nel nazionalismo la causa delle guerre. Ma negli anni Trenta nasce un pacifismo che difende solo l’interesse nazionale. Nel 1939, il francese Marcel Déat scrisse sull’Œuvre un articolo intitolato “Mourir pour Dantzig?” – “Morire per Danzica?” – che sottintendeva un secco “no”. Era l’idea di non immischiarsi nelle guerre altrui, ed era lo stesso pensiero diffuso negli Stati Uniti all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, prima di Pearl Harbor. Qualcosa di analogo accade oggi con l’Ucraina, quando molti europei si oppongono nemmeno a “morire”, ma a “spendere” per Kiev. È una degenerazione del pacifismo, che rischia di svuotarlo del suo originario senso umanitario».

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