Approfondimenti · 4 Dicembre 2025

Il giorno in cui finì la Grande guerra

A Losanna, nel luglio del 1923, si chiuse davvero la prima guerra mondiale: tra diplomazia e tragedie umanitarie, lo scambio forzato di popolazioni proposto da Nansen inaugurò un nuovo capitolo dell’Europa del Novecento, trasformando milioni di civili negli “ostaggi” della pace

di Andrea Possieri

Quando Fridtjof Nansen, l’Alto commissario per i rifugiati della Società delle Nazioni, fece il suo ingresso in uno dei grandi hotel di Losanna, il caricaturista politico Emily Klen lo descrisse come un uomo «immenso, muscoloso, dalle spalle larghe» che era venuto nella città ginevrina per mettere a disposizione «la sua colossale forza, il suo colossale prestigio».

Nansen, che in virtù della sua grande caratura morale avrebbe ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1922, è indubbiamente uno dei protagonisti del libro di Jay WinterIl giorno in cui la finì la Grande Guerra. Losanna, 24 luglio 1923: i civili ostaggio della pace, il Mulino, Bologna, 2023.

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La sua figura, però, ci restituisce gli aspetti più controversi della Conferenza di pace di Losanna, che fu convocata nel luglio del 1923 per porre fine al conflitto tra la Turchia e la Grecia che era scoppiato dopo l’armistizio sul fronte occidentale durante la Prima guerra mondiale.

Tra tutti i temi sul tavolo, il più intricato era sicuramente quello del trattamento da riservare alle rispettive minoranze nazionali, ossia i greci che vivevano in Turchia e i turchi che vivevano in Grecia. Questa si intersecava poi con quella altrettanto complessa delle aspirazioni nazionali degli armeni, che erano stati duramente repressi dai turchi in quello che è considerato uno dei primi genocidi moderni.

L’esploratore e politico norvegese giunse in Svizzera per proporre, come gesto umanitario, uno scambio di popolazioni che intendeva coinvolgere oltre un milione di individui tra la Grecia orientale e la penisola anatolica. Questa proposta di Nansen che coniugava, paradossalmente, la pace con lo spostamento coatto, l’umanitarismo con il suo opposto, ovvero la negazione dei diritti umani, fu un momento cruciale, non solo della Conferenza di Losanna, ma della storia delle relazioni internazionali del XX secolo.

Per comprendere fino in fondo quello che successe nella cittadina elvetica, occorre partire da una semplice quanto inusuale premessa storica: la Prima guerra mondiale non finì l’11 novembre 1918, con l’armistizio sul fronte occidentale, né il 28 giugno 1919 con la firma del Trattato di pace di Parigi.

Al contrario la guerra continuò e si frammentò in una serie di conflitti decentrati che, tra il 1918 e il 1923, devastarono gran parte dell’Europa orientale. L’ultima recrudescenza di violenza fu appunto la guerra greco-turca e solo dopo la disfatta delle forze elleniche in Anatolia tutti concordarono sul fatto che fosse venuto il momento di porre fine al più terrificante decennio di violenza a cui il mondo avesse mai assistito. Il 24 luglio 1923 a Losanna fu, pertanto, il giorno in cui si concluse effettivamente la Grande guerra.

La delegazione turca a Losanna

Purtuttavia, la Conferenza di pace produsse due esiti controversi. Innanzitutto, sancì l’affermazione della nuova Turchia di Mustafa Kemal e la definitiva marginalizzazione della questione armena che, da quel momento, cessò di essere un problema politico e si trasformò, esclusivamente, in un’emergenza umanitaria.

In secondo luogo, Losanna fu il momento in cui milioni di civili si trasformarono, come scrive Winter, in «ostaggi scambiati per il raggiungimento della pace». Il prezzo della pace venne pagato, pertanto, sia dagli armeni a cui non venne riconosciuta l’indipendenza, e sia dalle popolazioni civili greche e turche che furono costrette a lasciare territori e abitazioni in cui vivevano da secoli.

Per identificare i civili di questa migrazione forzata si scelse il criterio dell’appartenenza religiosa. La regola di fondo era chiara: i greci ortodossi non potevano più essere cittadini turchi, a meno che non vivessero a Costantinopoli. I musulmani a loro volta non potevano essere cittadini greci, salvo che non risiedessero nella Tracia occidentale.

Indubbiamente, lo scambio di popolazioni proposto da Nansen fu un provvedimento in grado di salvare delle vite ma, al tempo stesso, questa decisione produsse la «prima indelebile etichetta» per definire etnicità e cittadinanza su base esclusivamente religiosa.

L’espulsione coatta di greci e turchi, secondo il principio di «non mescolanza», non fu altro che l’anticamera della «pulizia etnica», anche se ciò non avvenne secondo un rigido nesso di causa-effetto. La linea di demarcazione tra espulsione e sterminio, afferma Winter, era facilmente valicabile ma non fu un effetto automatico.

Nel caso degli armeni dell’Anatolia, infatti, le espulsioni del 1915 avevano rappresentato il primo passo verso lo sterminio. Per la maggior parte la popolazione greco-ortodossa della stessa regione, invece, fu un sinonimo di salvezza.

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Andrea Possieri

È professore associato di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Perugia. Membro del Comitato scientifico della rivista «Ventunesimo secolo», del Consiglio di indirizzo del Centro di ricerca universitario Legality and Participation (LEPA) e della Commission Internationale d’Histoire et d’Études du Christianisme (CIHEC). I suoi studi si concentrano sulla storia politica dell’Italia contemporanea con una particolare attenzione al periodo risorgimentale, alle vicende dei partiti politici, alle migrazioni internazionali e al ruolo dei cattolici. La sua ultima pubblicazione, di cui è co-curatore e co-autore, è Pensare Francesco. Storia, memoria e uso politico (il Mulino, 2025).

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