Approfondimenti · 7 Dicembre 2024

Il sogno delle Indie. La storia dei gesuiti e delle loro missioni 

In un libro di Emanuele Colombo rivive l'epopea di quattro secoli della Compagnia di Gesù, a partire dalle lettere di candidatura alle missioni. Ma riuscire a partire non era affatto semplice

di Claudio Ferlan

C’è un valore aggiunto, in certi libri di storia del cristianesimo, ed è quello di sapersi muovere con la bussola ben orientata nel lungo periodo. Per farlo servono quantomeno due qualità, che certo non mancano a Emanuele Colombo, autore di Quando Dio chiama. I gesuiti e le missioni nelle Indie (1560-1960) (il Mulino, 2023). Mi riferisco a solidità nella ricerca e brillantezza di penna: della prima avremo modo di ragionare nelle prossime righe, per rendersi conto della seconda vale davvero la pena leggere le pagine (7-22) del prologo.

Le lettere di candidatura

Lo sguardo di Colombo si rivolge a quattro secoli di storia della Compagnia di Gesù, contemplandola nella sua (quasi) totalità, utilizzando la lente tanto particolare quanto rivelatrice delle lettere di candidatura alla missione; litterae indipetae nel linguaggio gesuitico, quelle scritte da quanti chiedevano di andare nelle Indie, Indias petebant

La quasi totalità della storia dei gesuiti, si anticipava, perché la consuetudine di scrivere ai propri superiori per esprimere la propria vocazione alla missione sorse subito dopo la fondazione dell’ordine (1540) e si è conservata fino agli anni Sessanta del secolo scorso, quando la missione stessa ha cambiato completamente faccia. Parliamo davvero di ieri, forse anche di stamattina se pensiamo al tempo della storia: basti tenere conto che una indipeta la scrisse il giovane Jorge Mario Bergoglio, indirizzandola al suo padre generale, Pedro Arrupe. 

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Proviamo dunque a ripercorrerli assieme all’autore, questi ultimi quattro secoli di storia dell’evangelizzazione. Il punto di partenza è la vocazione: come nasce, come si può raccontare? Non le si può resistere, puntualizzò Nicolò Spinola da Novellara, nelle varie lettere inviate tra 1575 e 1577 per presentare la sua candidatura alle Indie. Non le si può resistere a tal punto che il messinese Metello Saccano, siamo intorno al 1640, “per otto anni, a ritmo sempre crescente, inondò il generale Vitelleschi di richieste per le missioni orientali” (43), venendo infine accontentato, forse – ipotizza Colombo – per sfinimento del destinatario di tanto frequenti suppliche. 

Il reclutamento

Ma come funzionava? Bastava scrivere al superiore, o ai superiori con una folle frequenza ed eccoti accontentato?

No, e la risposta ai quesiti non è affatto facile. Ed è qui – non certo solo qui – che emerge quella solidità nella ricerca che caratterizza le pagine del libro e di cui si è parlato nelle prime righe di questa nota.

Emanuele Colombo, infatti, da tempo conduce ricerche sulle lettere indipetae e lo fa in maniera eclettica: lavorando con originalità e puntiglio in prima persona sulle fonti, guidando gruppi di ricerca e reclutando di conseguenza giovani storiche e storici, coinvolgendo chi studia e insegna in varie scuole superiori della Penisola nell’approccio ai documenti di archivio e nella loro trascrizione.

Una competenza matura, che consente anche di muoversi nei territori più complessi, quale è quello della ricostruzione del funzionamento del reclutamento. Un procedimento per il quale possiamo certo avere degli indizi, ma che mai fu definito secondo regole certe.

Le qualità

Per avere successo servivano delle qualità: una buona salute (quella che non aveva il giovane argentino Bergoglio), una riconosciuta predisposizione all’apprendimento delle lingue, qualche competenza particolare utilizzabile in contesti estranei a quelli di origine (essere buoni matematici, geografi, astronomi), una devozione sincera ai santi missionari, Francesco Saverio prima di tutti.

Talvolta, però, avere troppi pregi poteva rivelarsi uno svantaggio: c’era pur sempre bisogno di personale capace anche nella vecchia Europa, dove le scuole, il pulpito, il confessionale, la stessa vicinanza ai leader politici ed economici richiedevano personale cattolico di spessore.

Per un Metello Saccano di successo, poi, vi erano molti che vedevano frustrate le proprie aspirazioni perché l’insistenza aveva raggiunto dimensioni poco tollerabili. Allo stesso modo, intestardirsi troppo sulle proprie capacità rischiava di raffigurare il candidato come colpevole del peccato di superbia.

Rifiuti

Insomma, trovare la chiave per farsi scegliere non era affatto semplice. Lo si capisce bene leggendo il capitolo sesto: Indie negate e altre Indie, che inizia così: “Dopo aver ricevuto una indipeta, il generale non sempre rispondeva come i candidati avrebbero desiderato: talvolta stava in silenzio o, più spesso, chiedeva di avere pazienza, di mantenere vivo il fuoco e di utilizzare il desiderio delle Indie per coltivare una maggiore perfezione spirituale” (143).

Che cosa, dunque, muovesse il generale (era lui ad avere l’ultima parola, per quanto rilevanti potessero essere le opinioni di chi lo consigliava) nelle proprie decisioni non possiamo saperlo con certezza, ma il libro fornisce parecchi elementi per farsi un’idea. 

La rinascita della compagnia

La Compagnia di Gesù venne soppressa nel 1773 e ricostituita nel 1814, quando però dovette partire se non da zero, da meno di mille, quanti erano i membri dell’ordine al tempo della rinascita.

Serviva, tra le altre cose, recuperare il proprio passato per collocarsi nel mondo presente. Era un compito difficile, svolto sia grazie “un rinnovato slancio missionario” (182) guidato dal generale Jan Philip Roothann a partire dal 1833, sia dalla ripresa della retorica di età moderna da parte di quanti di quello slancio volevano essere partecipi. 

Che fare, poi, una volta giunti nell’agognato luogo di evangelizzazione? Tante erano le attività che si aprivano alle possibilità e alle competenze del missionario, una di queste – fondamentale fin dalle origini della Compagnia – è sapientemente descritta nel capitolo nono: La missione al tempo del colera: epidemie ed evangelizzazione nelle Indipetae, dove risalta la consapevolezza dell’impegno dei confratelli in questo particolare campo della quotidianità nell’emergenza, da parte dei candidati alle Indie del XIX secolo.

Dirsi disponibili ad accudire i malati, si sperava, poteva essere una qualità della quale il superiore avrebbe tenuto conto al momento di decidere chi inviare in missione, chi no. 

Una delle frasi che identificano l’essere gesuita è “Tutto il mondo sia la nostra dimora” – lo si comprende bene anche dai capitoli conclusivi nei quali l’autore si sofferma anche sulla dimensione geografica della missione novecentesca – e in viaggio attorno al mondo ci porta Emanuele Colombo, scrivendo un libro che vale la pena leggere.

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Claudio Ferlan

Claudio Ferlan (1972) è ricercatore presso l’Istituto Storico Italo-Germanico della Fondazione Bruno Kessler (Trento). Laureato in giurisprudenza e in storia del cristianesimo, dottore di ricerca in storia moderna. Studia principalmente la Compagnia di Gesù e la storia delle missioni, in Europa e nelle Americhe, tra XVI e XIX secolo. Si interessa della cultura alimentare e della sua rilevanza per le religioni cosiddette indigene e per quelle cristiane. Su questo tema ha scritto Venerdì pesce. Digiuno e cristianesimo (il Mulino 2021) e Sbornie sacre, sbornie profane. L’ubriachezza dal Vecchio al Nuovo Mondo (il Mulino 2018, traduzione tedesca 2021). Sempre per il Mulino ha pubblicato I gesuiti (2015, traduzione portoghese brasiliana 2018), una storia della Compagnia di Gesù da Ignazio a Bergoglio e Dentro e fuori le aule (2012).

Ha scritto una biografia del missionario gesuita José de Acosta (2014), uscita con le edizioni del Sole 24 Ore.Ha avuto modo di fare ricerca in varie istituzioni estere (Università di Klagenfurt e Graz, Istituto Max Planck per la storia del diritto di Francoforte, École des hautes études di Parigi, Università di Berkeley e Boston College); viaggiando ha imparato molto sulla fondamentale importanza della public history e della comunicazione della storia.

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