Approfondimenti · 25 Ottobre 2025
La preghiera e la spada. Storia della Prima crociata
Francesco Hayez, Pietro l'eremita predica la crociata, 1828
Un viaggio tra fede e violenza, liturgia e massacro: la conquista di Gerusalemme del 1099 raccontata da Antonio Musarra come un nodo in cui mito e realtà, speranza e atrocità si intrecciano, segnando per sempre l’immaginario dell’Occidente
Non è soltanto la cronaca di un assedio, quella che Antonio Musarra presenta nel suo nuovo libro, L’assedio di Gerusalemme (Carocci), ma la narrazione di un momento che ha inciso profondamente nella storia d’Occidente: la conquista crociata di Gerusalemme del 15 luglio 1099, una data che non appartiene soltanto alle vicende militari del Medioevo e che continua a vibrare nell’immaginario collettivo.
Gerusalemme non è mai stata una città qualunque: è un luogo unico che da oltre un millennio tiene insieme, e al tempo stesso divide, i tre grandi monoteismi. Una città fragile, di pietre e polvere ma anche sogno apocalittico e miraggio di redenzione. Perciò il volume prende le mosse proprio da qui: dall’idea forte della lunga durata di Gerusalemme, non semplice spazio geografico, ma un intreccio di memorie e di immagini sovrapposte.
Accanto alla città terrena, fatta di mura e strade, ne è sempre esistita per il cristiano un’altra, invisibile ma densa: la Gerusalemme celeste, evocata dai profeti come visione luminosa, splendente di pietre preziose, descritta dall’Apocalisse come nuova creazione, “sposa adorna per lo sposo”. È in questa tensione – fra realtà e mito – che Musarra colloca il cuore del suo racconto poiché non esiste la città terrena senza quella celeste, e viceversa: le due dimensioni si specchiano e, all’estremo, si inseguono.
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La Prima crociata
Su questo sfondo prende corpo la Prima crociata. Il clima è quello della grande riforma della Chiesa, che impone nuove regole di disciplina e un linguaggio profetico alla cristianità latina. Il 27 novembre 1095, a Clermont, il papa Urbano II lancia un appello che non è solo invito alle armi ma è un annuncio carico di immagini apocalittiche.
Circolano lettere attribuite a santi e angeli, visioni che promettono Gerusalemme liberata e un mondo redento e trasformato alla radice, proiettato verso l’aldilà. In un continente segnato da carestie, conflitti feudali e un crescente divario sociale, quel linguaggio agisce da scintilla. I pauperes, i contadini ai margini, i deboli, i derelitti, i cavalieri senza eredità, gli avventurieri e gli invasati pervasi da spirito messianico come Pierre d’Amiens vi leggono la possibilità di un riscatto terreno e celeste.
Partire significa lasciare la miseria, espiare, trovare fortuna e cercare salvezza. Così la crociata prende la forma di un cammino totale, in cui si fondono guerra e pellegrinaggio, penitenza e avventura, obbedienza al papa e ricerca di un mondo nuovo. Ma quel fervore ha fin da subito un volto oscuro. Prima ancora di mettersi in marcia, i crociati si macchiano dei pogrom renani. Tra Magonza, Worms e Colonia, intere comunità ebraiche sono assalite, con massacri feroci, conversioni forzate e suicidi collettivi di uomini e donne che preferirono la morte all’umiliazione.
È l’idea, distorta ma potente, che la liberazione del Santo Sepolcro debba cominciare in patria, eliminando i nemici di Cristo accanto ai quali si è vissuto per secoli. Pellegrinaggio e pogrom, fede e odio: la contraddizione originaria della crociata, destinata a incidere a fondo nella memoria collettiva.

Un’impresa difficile
Il cammino dei crucisignati verso Oriente è un banco di prova durissimo. Attraversare l’impero bizantino per Musarra significa affrontare diffidenze e sospetti, negoziare, subire la fame, le malattie, le diserzioni. L’assedio di Antiochia nel 1098 sembra il punto di rottura: mesi di privazioni, mura inespugnabili, pestilenze che decimano gli uomini.
È allora che le cronache si riempiono di prodigi: santi che rincuorano i combattenti, cavalieri celesti che giungono in aiuto, una reliquia preziosa – la lancia di Longino che aveva trafitto il corpo di Cristo – ritrovata nel sottosuolo della città. La disfatta si muta in vittoria: Antiochia cade, e il mito della crociata si rafforza, non più soltanto guerra d’uomini, ma impresa segnata dal favore divino.
Tuttavia, la marcia verso Gerusalemme resta segnata da abissi. A Maʿarrat al-Nuʿmān, nel dicembre 1098, alcuni tafuri – «termine dall’etimologia incerta, presente in numerose lingue con significato di furfante, miserabile, null’altro che sbandati» – che ingrossavano le fila della conquista della Terra Santa e spesso tormentati dalla penuria di cibo si abbandonano come estrema ratio al cannibalismo.
I cronisti, non solo di parte musulmana, narrano l’episodio con raccapriccio; eppure, esso rimane parte integrante del racconto, perché mostra fino a che punto questa crociata abbia saputo toccare insieme la vetta della mistica e il baratro della disumanità. D’altronde ci troviamo in un’epoca segnata dalla violenza, in cui episodi atroci non sono troppo infrequenti e vanno quindi considerati nel loro contesto.
L’assalto
Il 7 giugno 1099, finalmente, Gerusalemme appare agli occhi dei crociati. Dal colle di Montjoie i crociati la scorgono, e molti s’inginocchiano, altri piangono, altri levano le mani al cielo. Non sono più un esercito: sono pellegrini sulla soglia del mistero.
Prima dei preparativi militari, la città è cinta da migliaia di persone in processione, tutti a piedi, scalzi, salmodianti e supplichevoli. Finita la liturgia, comincia l’assedio, raccontato dall’Autore momento per momento.
Il primo attacco fallisce, nello sconforto generale; ma il digiuno collettivo ordinato dai capi riaccende la fiducia. Il secondo assalto, il 14 luglio, è irresistibile, con i capi crociati in testa, Goffredo di Buglione da nord, Raimondo di Tolosa da sud. Le torri di legno, innalzate con il materiale sbarcato dai genovesi a Giaffa, si accostano alle cortine tra fuochi e dardi, mentre dalle sommità si calano ponti mobili sugli spalti.

Contraddizioni
All’alba del 15 luglio Gerusalemme cade. Allora esplode la furia. Le cronache parlano di sangue che scorre come fiumi nelle strade, cadaveri ammassati nei vicoli, moschee trasformate in luoghi di sterminio. Uomini, donne, bambini sono abbattuti senza distinzione, e la città della promessa si muta in teatro di strage.
Eppure, gli stessi uomini che hanno profanato di sangue la città entrano in processione nel Santo Sepolcro, cantando e piangendo di gioia: hanno adempiuto il voto, conquistato la città promessa. Il paradosso è compiuto: la Gerusalemme della liturgia s’incontra con la Gerusalemme del massacro, la preghiera con la spada.
Il racconto di Musarra non si ferma alla conquista del 1099. Segue le vicende della Gerusalemme crociata, che nei decenni successivi si cristianizza in larga parte, pur conservando tratti ibridi e contraddittori. I cavalieri insediatisi in Terra Santa agli occhi dei nuovi crucisignati che giungono da Occidente appaiono spesso come «signori latini che vivono e vestono all’orientale, conoscono l’arabo, ostentano l’amicizia con emiri e mercanti saraceni e spesso s’imparentano con casate indigene», e, per questo motivo, ritenuti corrotti, quando non addirittura traditori della Cristianità. È un altro volto della crociata: quello dell’adattamento, della convivenza forzata, di un’identità che si rimodella ai margini dell’Europa.
La storia della Gerusalemme cristiana termina, come si sa, il 2 ottobre 1187, dopo la vittoria di Saladino a Ḥaṭṭīn; ma Musarra non arriva, né intende arrivare, fin qui. Resta legato a un nodo interpretativo che attraversa tutto il libro: l’assedio del 1099 come punto d’incontro tra opposti inconciliabili – fede e violenza, liturgia e massacro, mito e realtà.
È una contraddizione che si riverbera nei secoli, perché questo libro non parla solo del Medioevo: parla anche a noi, della nostra difficoltà a distinguere la fede dalla violenza, la memoria dalla strage. Gerusalemme resta così sospesa, come lo fu allora: città di pietra e di sangue, ma anche di promesse e di speranze, in un’ambiguità che sconcerta. Perché dietro quelle mura, in quell’estate lontana, non si decise soltanto il destino di una città, ma l’immagine stessa dell’Occidente: capace di innalzarsi alla contemplazione del divino e, nello stesso tempo, di precipitare nell’abisso della disumanità.
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