Approfondimenti · 16 Novembre 2024

La storia riscoperta del terremoto di Pompei

Un gruppo di ricercatori italiani è riuscito a provare gli effetti delle scosse, nelle ultime ore di vita della città. Così, per la prima volta, le parole di Plinio il giovane hanno trovato una conferma, grazie a un team di studiosi di discipline diverse

di Daniele Erler

La storia degli ultimi attimi di vita di Pompei è affascinante, anche perché – a distanza di quasi duemila anni – ancora si possono fare delle scoperte. È il caso di una ricerca, guidata da Domenico Sparice dell’Istituto nazionale di geofisica, pubblicata dalla rivista Frontiers in Earth Science e ripresa anche dal New York Times: per la prima volta, è stato provato che a uccidere gli abitanti della città non furono solo gli effetti dell’eruzione del Vesuvio, con i suoi lapilli di pomice, i flussi di gas e i frammenti vulcanici. 

È stata anche colpa di un terremoto, che ha squassato Pompei e fatto crollare alcune case, esattamente come aveva raccontato un testimone d’eccezione, Plinio il giovane, nelle lettere a Tacito. Scrivendo degli ultimi momenti di vita dello zio, aveva riferito che le case traballavano «per i frequenti e lunghi terremoti. Sembravano oscillare in un senso o nell’altro, come se fossero scrollate dalle loro fondamenta».

Più discipline

L’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. ha reso Pompei immortale. I calchi fatti con il gesso, lì dove stavano i corpi degli uomini, hanno permesso di fissare gli ultimi gesti delle persone che vivevano in città. Ci sono i resti delle case e delle ville, che caratterizzavano un centro che integrava l’economia agricola, con i suoi orti e i vigneti, alle attività artigianali e commerciali. Tutto questo ha reso Pompei il più celebre parco archeologico del mondo, ma anche uno straordinario laboratorio per le più svariate discipline. 

L’approccio di Sparice e del suo gruppo di studiosi è stato proprio questo: cercare di mettere insieme ricercatori di formazione diversa, coinvolgendo anche esperti nel campo dell’archeosismologia, insieme ad archeologi, vulcanologi e antropologi. L’obiettivo era di studiare alcuni edifici nell’Insula dei Casti Amanti, una zona centrale di Pompei.

Dopo alcuni scavi recenti, in parte ancora in corso, è stata trovata per la prima volta la prova che alcuni crolli sono stati causati non tanto dagli effetti dell’eruzione, ma dal terremoto che si è scatenato praticamente in contemporanea. Lo si è capito ad esempio studiando le fratture ossee negli scheletri di due individui, studiando la stratigrafia vulcanologica e come si sono spostati i muri. 

Questo modo di fare ricerca, spiega Sparice al Circolo della Storia, potrà aprire a ulteriori scoperte nei prossimi mesi, permettendoci di migliorare le nostre conoscenze sulla fine di Pompei. E in un certo senso ritrovando finalmente le prove di quello che raccontava Plinio.

Le prove

«La scoperta non è tanto che ci sia stato un terremoto, perché eruzioni che sprigionano grande energia, come è stata quella del 79 d.C., sono quasi sempre accompagnate da una sismicità importante, come sappiamo anche da episodi più recenti», spiega Sparice. «La novità sta nel fatto che per la prima volta questi danni causati dalla sismicità sono stati riconosciuti e provati a Pompei. È stato possibile soprattutto grazie al coinvolgimento di un esperto degli effetti dei terremoti nei contesti archeologici, che è riuscito a riconoscerne i segni».

Finora, la letteratura scientifica attribuiva la distruzione della città soltanto ai fenomeni specifici dell’attività vulcanica. In una prima fase dell’eruzione, i lapilli, piccoli frammenti della lava, si sono sedimentati sui tetti degli edifici, provocandone poi il collasso a causa del peso. In una fase successiva, c’è stato invece l’impatto devastante dei flussi piroclastici, i materiali magmatici e i gas prodotti dal vulcano.

Ma, nel mezzo, c’è stato appunto il terremoto, come è stato ricostruito grazie alla ricostruzione stratigrafica dei depositi vulcanici. «Inoltre, nella letteratura vulcanologica sono descritti le tipologie di danno che sono causati alle strutture dai vari fenomeni meccanici. Per esempio, l’accumulo di lapilli genera il collasso del tetto, mentre i flussi piroclastici provocano solitamente il ribaltamento delle pareti. Nelle strutture che abbiamo analizzato non c’era nulla di tutto questo: le pareti che abbiamo studiato erano semplicemente fratturate e sembravano dislocate e scivolate lungo un piano verticale». Proprio come avviene per un terremoto.

Infine, c’era la prova delle due vittime, i cui scheletri erano caratterizzati da molte fratture – specie della gabbia toracica e degli arti – che sono compatibili con ferite causate da traumi da compressione.

«La ricerca che abbiamo fatto è solo il punto di partenza», spiega Sparice. «Il nostro team sta osservando quanto emerge dagli scavi, con grande attenzione allo stato di conservazione delle pareti e dei tetti. Ma vorremmo anche applicare lo stesso metodo a un’area più ampia di Pompei, anche cercando di capire se ci sono altri danni che possono essere ricondotti alla sismicità».

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Daniele Erler

Laureato in storia all’Università di Trento, con una specializzazione all’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino. È giornalista professionista, ha collaborato con la Stampa e con il Fatto Quotidiano, fra gli altri. Dal 2020 al 2024 è stato caposervizio al quotidiano Domani, dove si è occupato in particolare di giornalismo digitale e nuovi media. Dal 2024 coordina i contenuti editoriali del Circolo della Storia.

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