Rassegna Stampa · 18 Ottobre 2025

Le guerre immaginate che armarono le nazioni

da Londra è sconfitta (ma è un romanzo) di Paolo Mieli, Corriere della Sera, 14 ottobre 2025

Nel suo nuovo saggio L’invasione immaginata. Futuro, guerra e conflitto sociale in Europa (1871-1914), pubblicato da il Mulino, Francesco Casales esplora la genesi e gli effetti politici della cosiddetta “letteratura d’invasione”, un genere narrativo che tra il 1871 e il 1914 mescolò fantasia e propaganda nazionalista. Ne ha scritto Paolo Mieli sul Corriere della Sera.

Come capostipite, Casales individua La battaglia di Dorking (1871) di George Tomkyns Chesney, racconto in cui un reduce narra la sconfitta della Gran Bretagna per mano di una potenza germanica. L’opera, scritta sull’onda della vittoria prussiana sulla Francia, ebbe un enorme successo e venne letta come un ammonimento: in Inghilterra a rafforzare le difese e in Germania come conferma della propria superiorità. Il testo — osserva Casales — servì da modello a decine di romanzi che, giocando sulla paura dello straniero e dell’invasione, finirono per sostenere la causa militarista e per minare la fiducia nel parlamentarismo liberale.

Tra la guerra franco-prussiana e l’attentato di Sarajevo, questo genere si affermò come uno strumento per la propaganda, capace di rendere “la guerra una fantasia concretamente immaginabile”. I romanzi d’invasione, nati come esercizi di anticipazione strategica, divennero strumenti per invocare governi forti e il potenziamento delle forze armate.

Negli anni Ottanta dell’Ottocento una nuova ondata di racconti nacque dal progetto del tunnel sotto la Manica: nel 1882 diversi autori immaginarono un’invasione francese attraverso il traforo. Ma la novità fu il cambio di prospettiva: al centro non più le battaglie, ma la vita quotidiana dei civili. La paura non riguardava solo la sicurezza nazionale, ma anche la distruzione delle case e la fine del proprio stile di vita.

La letteratura d’invasione passò così da pamphlet militari elitari a romanzi popolari, accessibili al grande pubblico.

In Italia il filone attecchì più tardi, con racconti di autori come Eugenio MassaPompeo Moderni e Argus (pseudonimo di Gaetano Limo), legati alla Lega Navale Italiana. Questi romanzi denunciavano la debolezza della flotta e criticavano la classe politica, incapace di finanziare l’esercito: la sconfitta immaginata diventava allegoria dell’inefficienza del sistema parlamentare.

Casales mostra come la “nazione”, da ideale rivoluzionario dell’Ottocento, finì per trasformarsi in un concetto esclusivo e reazionario. Questi romanzi, spiega, «delegittimavano il sistema politico liberale» e «fungevano da strumenti di comunicazione politica al limite della propaganda», sfruttando la paura come collante sociale.

Tra la fine del secolo e la vigilia della Grande guerra, il genere si diffuse in tutta Europa. In Gran Bretagna scrittori come Rudyard KiplingWilliam Le Queux e H.G. Wells (con La guerra nell’aria, 1908) resero popolare la visione di un Impero minacciato da complotti e attacchi. Il paradigma dell’invasione divenne un dispositivo narrativo capace di alimentare, attraverso la fiction, il discorso politico militarista e ultranazionalista.

Il passo finale lo segna la figura della spia interna, incarnata dal “signor Verloc” ne L’agente segreto (1907) di Joseph Conrad, infiltrato che organizza un attentato per destabilizzare il Paese. A quel punto, scrive Mieli, la “letteratura d’invasione” aveva completato la propria metamorfosi: da narrazione di intrattenimento a manifesto implicito per un potere autoritario capace di evitare il caos e la sconfitta.

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