5 Ottobre 2024

L’orologio del potere

Com'è cambiata la concezione del tempo? E soprattutto: come è diventata uno strumento di potere e di contesa politica?

Andrea Zannini intervista Filippo Triola

Com’è cambiata la concezione del tempo? E soprattutto: come è diventata uno strumento di potere e di contesa politica? Il Circolo della Storia incontra Filippo Triola, autore di L’orologio del potere. Stato e misura del tempo nell’Italia contemporanea (Il Mulino, 2023), uno dei libri inseriti nella terzina finalista del premio Friuli Storia 2024.

Ricercatore all’Alma Mater, ha lavorato alcuni anni a Berlino e Treviri. Si è precedentemente occupato di relazioni politiche tra Italia e Germania e storia dei partiti socialisti tra Otto e Novecento.

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L’intervista

Dott. Triola, è stato contento che il suo libro è stato selezionato, tra oltre cento volumi di storia contemporanea, tra i finalisti del Premio Friuli Storia? Se lo aspettava?
Sono contentissimo. Ho conosciuto il premio tramite la mailing list della Sissco, la società degli storici contemporanei, e lo seguo da anni. Non lo dico per piaggeria ma è uno dei premi storici più interessanti perché prima c’è la selezione della giuria scientifica, e dopo la votazione da parte di una giuria di lettori. Insomma, dopo anni ad osservare le selezioni del premio, con grande sorpresa e gioia ho scoperto di essere entrato nella terzina finalista.

Ha avuto modo di leggere i commenti dei lettori? Che impressione ne ha tratto?
Sono commenti che danno la possibilità assai rara di avere un riscontro anche da lettori non specialisti, non solo dalla solita comunità ristretta dei colleghi o dei maestri. Credo che se la storia ha ancora senso scriverla nelle lingue nazionali, e per me lo ha, è perché ha anche una missione civile, quella di arrivare al più largo numero di lettori possibile. Ricevere quel tipo di commenti da un pubblico così vasto mi ha arricchito personalmente.

Nel suo percorso professionale di studioso che posto ha avuto questo libro?
Questo per me è un libro importante, è una delle ricerche a cui tenevo di più fin dai tempi della laurea; non avevo avuto mai modo di occuparmene perché durante il dottorato ho studiato un tema molto più classico, le relazioni fra Italia e Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma la questione del tempo è sempre rimasta sotto traccia.

Serviva anche una certa maturità per capire come potesse essere indagato il tempo in termini storici. Intorno al 2016-2017 ho finalmente intravisto una chiave: quella di osservarlo come oggetto di conflitto politico. Mi ha anche aiutato il fatto che l’Italia ha avuto una storia particolare nell’ambito della misurazione del tempo: sul tempo e sulla sua misurazione si è scritto qui, negli ultimi tre secoli, molto di più rispetto ad altri paesi europei.

Da dove deriva questa attenzione particolare italiana sul tema del tempo e della sua misurazione?

Gli Stati italiani, prima dell’unificazione, avevano un sistema di contare le ore particolare, che veniva definito “orologio italiano”. Si basava, in pratica, sul tramonto del sole come momento d’inizio per il computo delle ore, che erano 24. Era un punto di partenza aleatorio, perché il tramonto varia non solo durante l’anno, ma anche in base al luogo, può essere diverso anche a pochi chilometri di distanza.

L’orologio francese, o meglio quello che gli italiani chiamavano “francese”, era un sistema molto più standardizzato e regolare utilizzato in tutta Europa, cioè nell’Europa che contava agli occhi degli italiani: la Francia, la Gran Bretagna e l’area di lingua tedesca. Secondo l’orologio francese la giornata era divisa in due cicli di 12 ore, a partire dalla mezzanotte locale.

Nel Settecento comincia ad esserci uno scontro tra questi due sistemi e si produce una letteratura che prosegue nell’Ottocento e di cui è rimasta dunque traccia. Non molti, tuttavia, se ne sono interessati. Penso al saggio di Ugo Tucci sulla città di Padova nel momento in cui passa dall’orologio italiano all’orologio francese, un esempio splendido di storia locale nell’ambito di un problema sociale, culturale ed economico molto più ampio.

Perché la standardizzazione del tempo diventa un problema politico?
Perché dalla seconda metà del Settecento si diffonde l’idea che una buona misurazione del tempo aiuta a governare meglio un territorio e il sistema europeo viene considerato più evoluto. Per passare a questo sistema si rivela così indispensabile l’azione dello Stato: era infatti impossibile che questa novità fosse introdotta, modificasse un costume antico senza un intervento legislativo, un intervento dall’alto.

Fino a prima di leggere il suo libro, pensavo che questa esigenza di razionalizzazione provenisse dalle necessità di regolare le nuove forme di organizzazione industriale, i mercati nazionali e i trasporti, mentre Lei tiene questo elemento su un secondo piano.
Forse questo ha avuto più importanza nell’Ottocento, quando già lo Stato si interessava al tempo come forma di “regolazione culturale”. Il punto è che la gran parte della storiografia internazionale si basa sull’esperienza storica inglese, francese e statunitense e quindi su panorami storici, politici e culturali molto diversi da quelli italiani.

In un certo momento, effettivamente, in quei paesi la diffusione delle ferrovie ha un ruolo decisivo nell’imporre una standardizzazione nella misurazione del tempo.

Nel caso italiano, se si vanno a leggere le fonti delle compagnie ferroviarie, non c’è questa esigenza. Nessuna compagnia ferroviaria italiana negli anni Sessanta dell’Ottocento fa una richiesta del genere o si lamenta del fatto che Napoli, Roma o Torino seguano degli orari diversi tra loro perché regolati sul meridiano locale.

Fernand Braudel diceva che la nazione francese è stata costruita quando il territorio nazionale è stato collegato dalla ferrovia. Forse le nazioni sono state costruite anche dalle lancette dell’orologio?
Questo è un aspetto che può essere indagato ancora sotto tanti risvolti. Il fatto che dal 1866 l’ora nazionale fosse basata sul meridiano di Roma non è priva di significato, non è scollegato da quello che era stato il Risorgimento, dagli ideali dell’Unità d’Italia, dal mito di Roma. Questo potrebbe sollecitare qualche riflessione, se non qualche ricerca, anche sul ruolo del tempo come elemento di nazionalizzazione.

Siamo abituati a pensare alle rivoluzioni come un tentativo palingenetico di riscrivere il tempo, ad esempio quello annuale, mensile ecc. Ma qual è il rapporto tra rivoluzione e tempo orario?
Se guardiamo alle rivoluzioni atlantiche, fino alla rivoluzione russa inclusa, c’è sempre un tentativo di riordinare il tempo. Ci sono stati esperimenti analoghi nella Cina comunista. Quando poi falliscono, la Cina adotta immediatamente un unico fuso orario per tutto il suo grande paese, dunque per nazionalizzare in un’ottica comunista cinese l’intera popolazione che prima viveva in quello che era stato l’impero.

Per quanto riguarda l’Italia, con l’avvento del fascismo, una rivoluzione del tempo orario invece non c’è…
Mussolini, arrivato al potere, decide di mettere da parte l’ora legale estiva, che era stata introdotta nel 1916, durante la guerra, per risparmiare, ma che nell’immediato dopoguerra venne contestata dal movimento operaio all’interno di una fase più vasta di riforme e aspirazioni rivoluzionarie. Lo fa, forse, anche per evitare di riaccendere le contestazioni del 1920.

L’ora legale non verrà più introdotta dopo il 1922 per tutta l’età fascista: fu forse una delle poche battaglie vinte di tutto il Biennio rosso. Verrà ripristinata durante la guerra, e poi saranno gli stessi tedeschi, durante l’occupazione, ad imporla alla Repubblica Sociale Italiana. Verrà infine reintrodotta dal centrosinistra nel 1966.

È un problema ancora aperto, si discute anche ora, a livello europeo, sull’opportunità del doppio cambiamento orario durante l’anno…
Ci sono infatti varie proposte per tenere tutto l’anno quella che solo noi chiamiamo ora legale: in tutte le lingue europee principali, tra l’altro, si usa l’espressione “ora estiva”. È una questione di “sovranità cronometrica”: nel momento in cui gli stati dovessero accordarsi all’interno dell’Unione Europea in tal senso, cederebbero un altro pezzetto di sovranità a Bruxelles.

Ci sarà un secondo volume di Orologio del potere, dedicato al periodo dopo il 1923?
Ci sto pensando, in effetti.

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Andrea Zannini

Insegna Storia dell’Europa all’Università di Udine ed è parte della giuria scientifica di Friuli Storia. I suoi interessi scientifici riguardano la storia economica e sociale dell’età moderna, la storia dell’emigrazione, della Resistenza e dell’alpinismo. I suoi ultimi libri sono: L’altro Pasolini. Guido, Pier Paolo, Porzûs e i turchi, (Marsilio 2022); Altri Pigafetta. Relazioni e testi sul viaggio di Magellano ed Elcano, (Viella 2023); Controstoria dell’alpinismo (Laterza 2024).

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