Approfondimenti · 5 Aprile 2025

Roma fascista. L’invenzione di una capitale

Nel suo ultimo libro Ernesto Galli della Loggia racconta come il fascismo trasformò Roma. E come Roma, a sua volta, contribuì a plasmare il regime

Roberto Chiarini intervista Ernesto Galli della Loggia

L’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia si intitola Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista, ed è edito dal Mulino. Roma è assunta dall’autore come l’esempio più illuminante di quanto il fascismo abbia inciso nella storia d’Italia, con effetti che sono sopravvissuti anche alla caduta del regime.

Ma forse si potrebbe anche dire il contrario: è anche la storia di come Roma, e l’Italia intera abbiano inciso sul fascismo. Ne parliamo con l’autore in questa intervista per il Circolo della Storia.

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Che Roma è quella che tratteggia in questo volume?

«È la Roma investita da una trasformazione epocale. Innanzitutto dal punto di vista demografico. Dal 1870 alla Prima guerra mondiale raggiunge i 500 mila abitanti. Nei vent’anni successivi, sotto il fascismo, supera il milione. È una città che acquista un forte connotato di modernità. Nascono nuovi quartieri, non solo per effetto dell’espansione demografica, ma anche perché il fascismo accentra qui moltissime delle sue iniziative politiche, sociali e culturali».

«Roma diventa anche l’emblema dell’investimento ideologico del fascismo, che si considera in qualche modo erede della romanità, dei Cesari, dell’Impero Romano. Non a caso Mussolini si proclama duce, secondo un’intuizione di Margherita Sarfatti, che gli suggerisce di puntare su Roma come investimento simbolico con cui caratterizzare il regime».

C’è un secondo addebito che si rivolge al fascismo: la sua vocazione agli “sventramenti” edilizi, attuati in dispregio alla storia delle città.

«È un’accusa che, secondo me, è assolutamente infondata. Gli sventramenti realizzati dai piemontesi, quando Roma fu annessa all’Italia, furono quantitativamente molto maggiori rispetto a quelli effettuati dal fascismo. Vennero aperti grandi assi viari per costruire nuovi quartieri, dedicati soprattutto agli impiegati. E si trattò di interventi molto più radicali rispetto alla grande operazione urbanistica intorno ai Fori Imperiali, al Campidoglio e al Teatro di Marcello».

«Bisogna anche dire che ciò che Mussolini, il fascismo e gli urbanisti al servizio del regime fecero a Roma era né più né meno quanto già fatto in tutte le capitali europee nel XIX secolo. Se oggi si va a Parigi, non si trova neppure una casa medievale: il prefetto di Napoleone III, Georges Eugène Haussmann, ne fece piazza pulita per costruire i grandi boulevard, la Parigi ottocentesca, la Parigi dello Stato nazionale».

«L’Italia arrivò semplicemente in ritardo anche su questo: fece cinquant’anni dopo quello che gli altri Paesi avevano fatto prima. Il conservatorismo a cui oggi aderiamo convintamente era del tutto estraneo alla cultura urbanistica e architettonica dell’epoca. E così era stato anche nei secoli precedenti, quando si disfaceva l’antico senza farci troppo caso».

«Questa accusa è stata molto favorita da una parola sbagliata, sciagurata: “sventramento”. È una parola sgradevole, diciamolo pure, che si presta bene a un uso negativo da parte dei critici. In genere, sul piano della comunicazione, il fascismo era piuttosto abile. In questo caso, no, per niente».

Foto Anthony Majanlahti via Flickr

L’arte divenne fascista o fu l’arte che approfittò del regime, collaborò col fascismo, ma mantenne una propria autonomia?

«Va fatta una distinzione tra architettura e urbanistica da un lato, e le arti visive dall’altro: scultura, mosaico, pittura. Il fascismo si incontrò con la rivoluzione razionalista, una grande rivoluzione culturale dell’architettura europea, resa possibile anche dall’uso di nuovi materiali come il cemento armato. E coinvolse una generazione di giovani architetti modernisti, razionalisti e, in molti casi, autenticamente fascisti — come molti giovani dell’epoca».

«Il regime si servì molto di loro, e alcuni furono tra i massimi architetti del Novecento italiano: come Giovanni Michelucci, Adalberto Libera… figure che continuarono a lavorare anche dopo la caduta del regime.

Spesso il fascismo diede loro carta bianca, anche in modo sorprendente. Mussolini incaricò Libera, che aveva solo 27 anni, di curare la facciata e gli interni dell’edificio destinato a ospitare l’esposizione per il decennio della rivoluzione fascista».

«In campo artistico, i massimi pittori dell’epoca furono tutti fascisti. Si riconoscevano nel rinnovamento culturale che il fascismo rappresentava. Mario Sironi, che è stato uno dei maggiori pittori del secolo, era un fascista — diremmo oggi — quasi fanatico. Anche se mantenne sempre la propria autonomia culturale e artistica: non fu mai un servo del regime».

«C’è un dato di fatto fondamentale: in Italia, a differenza della Germania, non ci fu un’emigrazione intellettuale. Ci fu una migrazione politica, certo, anche rilevante. Ma intellettuali che abbandonarono il Paese per protesta contro il regime, ritenendo impossibile lavorare sotto il fascismo, non ce ne fu neanche uno. Forse solo Toscanini — ma il suo è un caso anomalo, visto che nel 1919 si presentò nelle file del fascismo e fece anche un concerto a Fiume».

Da sinistra:
Filippo Tommaso Marinetti, Antonio Sant’Elia, uno sconosciuto, Mario Sironi e Umberto Boccioni

Foto Archivio Mario Sironi

La relativa autonomia dell’arte fu una peculiarità storica del fascismo. Il confronto con il nazionalsocialismo tedesco evidenzia una differenza assoluta, giusto?

«Sì. Il fascismo non ebbe mai un’estetica di Stato, un’estetica ufficiale. Tant’è vero che tutti gli artisti poterono continuare a dipingere e scolpire come volevano. A un certo punto, nella seconda metà degli anni Trenta, il fascismo abbracciò uno stile pomposo, che aveva suggestionato Mussolini durante le sue visite in Germania, e che volle riprodurre soprattutto nell’E42, il nuovo quartiere previsto per l’Esposizione del 1942. Ma anche lì, con molte eccezioni e variazioni».

A dare un nuovo volto a Roma hanno contribuito anche processi sociali prorompenti. Com’è cambiata la città in questo periodo?

«Durante il fascismo, Roma diventa in qualche modo la vera capitale d’Italia. Fino ad allora, era stata la città della politica, del Parlamento, del governo, della monarchia — ma non aveva avuto la funzione che ha una capitale moderna: quella di imprimere un ritmo alla vita del Paese. Culturalmente, ad esempio, Roma era del tutto assente. Le città che “parlavano” all’Italia erano Firenze e Milano».

«Con il fascismo, questo cambia. Roma diventa il centro di molte iniziative editoriali — a cominciare dall’Enciclopedia Italiana — e nascono molti giornali, riviste, periodici, alcuni dei quali molto innovativi. Questo attira numerosi intellettuali, che si trasferiscono a Roma per lavorare. Nasce una borghesia di Stato e di regime, che fino ad allora non esisteva: legata alla burocrazia, al giornalismo, al cinema o alla radio. La cultura moderna entra con forza nell’establishment italiano. E tutto questo avviene a Roma».

di Blackcat – Opera propria, CC BY-SA 3.0

Il libro si chiude con un giudizio che fa riflettere, e suggerisce di ripensare anche il rapporto degli italiani con il fascismo e la sua memoria: “La società italiana, assai più che divenire un docile strumento, si aprì ad esso, lo assorbì, lo metabolizzò, lo neutralizzò”.

«Sì. Io penso che il fascismo sia stato qualcosa di molto legato alla realtà italiana, già nella sua origine. Esce dalle viscere della società italiana. Certo, poi passa attraverso lo squadrismo. Ma quando diventa regime, è come se tornasse nel grembo che l’ha generato. Si italianizza, per così dire.

«La classe dirigente, l’élite italiana, la società italiana si serve del fascismo per modernizzarsi, per rafforzarsi, per ristabilire le proprie caratteristiche. E anche per trovare una capitale. Roma diventa capitale col fascismo, e quella capitale resta poi in eredità alla Repubblica».

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Roberto Chiarini

Già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, attualmente è presidente del Centro studi e documentazione sul periodo storico della Rsi di Salò (www.centrorsi.it). I suoi ultimi studi sono Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra (Marsilio, 2013); Il governo del leader. Craxi a Palazzo Chigi 1983-1987 (Il Torchio, 2017); Storia dell’antipolitica dall’Unità a oggi. Perché gli italiani considerano i politici una casta (Rubbettino, 2021).

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