Approfondimenti · 21 Novembre 2025
Speranza, nonostante tutto… La lezione di Irina Scherbakova a Friuli Storia
Dalla memoria familiare alle ferite ancora aperte della Russia contemporanea: nel suo discorso pronunciato a Udine, la storica ha ripercorso un secolo di rivoluzioni, repressioni, guerre e speranze tradite, mostrando come le vicende del Novecento continuino a riecheggiare nella Russia di oggi
Pubblichiamo l’intero discorso pronunciato da Irina Scherbakova a Udine, durante la cerimonia del premio Friuli storia.
Signore e signori, cari colleghi, membri della giuria, organizzatori del Premio Friuli Storia, esimio signor Sindaco, cari finalisti.
Per me è un grande onore ricevere questo premio, che significa molto, soprattutto perché è la scelta dei lettori italiani. Sono molto grata a tutti coloro che vi hanno contribuito: gli organizzatori del Premio, la casa editrice che ha pubblicato il libro, e il mio traduttore Stefano Vastano, che ha avuto l’idea di tradurlo in italiano. Non mi aspettavo un tale interesse per la storia russa e sovietica del XX secolo. Poteva davvero interessare a un lettore italiano la storia di una famiglia russa?
Ammetto di aver scritto questo libro su richiesta dei miei amici tedeschi, che mi hanno convinta a raccontare un secolo di storia della mia famiglia sullo sfondo degli eventi storici del Novecento -la rivoluzione, la guerra civile e il Grande Terrore del 1937-38, che i miei cari vissero proprio nel cuore della futura rivoluzione mondiale: nell’ostello del Comintern, l’hotel Lux. È la storia del crollo della profonda fede dei miei familiari nelle idee di sinistra radicale, e del lungo cammino di affrancamento dalla pesante eredità lasciata dallo stalinismo. Ho scritto degli eventi storici che hanno avuto un ruolo determinante nella vita della mia famiglia, soprattutto nella prima metà del XX secolo.
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L’inizio del Novecento e la rivoluzione
Il libro inizia con un’annotazione scritta da mia nonna nel suo diario alla fine del febbraio 1917, pochi giorni dopo la rivoluzione di febbraio e la proclamazione della libertà – anche per gli ebrei, che secondo le leggi russe non potevano lasciare la cosiddetta “area di insediamento” e vivere a Mosca, o a San Pietroburgo, se non avevano un’istruzione superiore e non possedevano ampie proprietà.
Mia nonna ha 17 anni e scrive con entusiasmo dei suoi sogni di una nuova vita. Presto, lei e il ragazzo che sarebbe poi diventato mio nonno lasciano la loro piccola cittadina al confine tra le attuali Ucraina e Bielorussia per andare a frequentare l’università a Kyiv.
Ma scoppia la guerra civile: i bianchi si avvicendano ai rossi, i rossi ai bianchi, iniziano i pogrom contro gli ebrei e loro sono costretti a fare ritorno a casa. Qui mio nonno, convintamente di sinistra, con l’avvento del potere sovietico diventa membro del Partito comunista. Da quel momento è un funzionario di partito.
Nel 1924, già dopo la morte di Lenin, viene mandato a Mosca per lavorare al Comintern, l’Internazionale comunista. I miei nonni vanno a vivere nell’ostello del Comintern, poi divenuto famoso, proprio nel centro di Mosca: l’hotel Lux.
L’infanzia al Lux
Questo “Lux” lo sentivo nominare continuamente durante la mia infanzia. E mi stupivo: che strano, chissà perché la mia famiglia non aveva vissuto in una casa normale, ma in un qualche strano albergo, circondata da persone provenienti da tutto il mondo, che andavano e venivano di continuo. Erano comunisti, funzionari di partito di tutto il mondo. Spesso al Lux c’erano anche i loro figli, con cui faceva amicizia mia mamma, provenienti da Austria, Germania, Polonia, Spagna…
In molti casi lì i loro genitori non venivano chiamati con il loro vero nome, ma con lo pseudonimo di partito. Ancora molti anni dopo mia nonna continuava a chiamare i suoi vicini di allora non Togliatti o Maurice Thorez, ma Ercoli e Wieden, come negli anni ’30.
La generazione delle illusioni rivoluzionarie
Mia mamma, nata al Lux nel 1927, crebbe credendo nella vittoria del comunismo e della rivoluzione mondiale; a metà degli anni ’30 lei e le sue amichette non giocavano con le bambole, ma facevano finta di essere infermiere che portavano via i feriti dal campo di battaglia durante la guerra contro i fascisti. Infatti era iniziata la guerra civile in Spagna, ed erano certe che la guerra successiva sarebbe stata combattuta contro i fascisti (come nell’URSS venivano chiamati anche i nazionalsocialisti tedeschi).
Mia mamma studiava in una scuola nel centro di Mosca, nella stessa classe delle figlie dei più alti funzionari sovietici, Stalin e Molotov. A questo proposito, nel libro descrivo una scena particolare.
Avrò avuto sette anni e passeggiavo per strada con mia mamma. Lei si fermò a parlare con una donna dall’aspetto del tutto normale; io mi annoiavo molto, mi giravo e rigiravo e mostravo in ogni modo che volevo andare a casa. Ma dopo aver salutato quella signora e aver ripreso la nostra strada, mia mamma evidentemente decise di darmi una lezione per la mia impazienza. E disse: “Sai con chi stavo parlando adesso? Con la figlia di Stalin!”
Ricordo che mi voltai indietro e cercai di seguirla con lo sguardo, perché non riuscivo proprio a immaginarmi che la figlia di Stalin – che ai miei occhi era una figura malvagia spaventosa e disumana – fosse una signora qualsiasi, una donna come mia mamma.
Il Grande Terrore
Quando mia mamma compì 10 anni, arrivò il 1937 e con esso il Grande Terrore, e la mia famiglia si trovò all’epicentro delle repressioni. Al Lux ogni notte qualcuno veniva arrestato. Arrestarono prima tutti i mariti delle amiche di mia nonna, poi anche le mogli.
Nella scuola di mia mamma ogni mattina qualche scolaro saltava le lezioni, e a volte poi spariva nel nulla. Perché quando i genitori venivano arrestati, i figli spesso finivano in orfanotrofio. Da allora la paura notturna si insediò in lei per sempre.
Naturalmente, quando ero piccola, non capivo bene perché mia nonna dicesse tanto spesso: “Sei nata in una famiglia molto felice, non puoi capire quanto siamo stati fortunati!”
L’ho compreso solo molti anni dopo, quando ho visto il fascicolo di partito di mio nonno, che conteneva le delazioni. Era accusato di legami con i trotskisti e di aver introdotto nel Comintern agenti fascisti. Perché poi non vi sia stato alcun seguito, perché non sia stato arrestato – sembrava un miracolo.
La sopravvivenza al Terrore e la guerra civile spagnola
Gli ex membri del Comintern che erano sopravvissuti alle purghe staliniane infatti la consideravano un’incredibile fortuna. Forse ebbe un ruolo il fatto che mio nonno, all’inizio del 1937, fu mandato come commissario politico in una scuola per aviatori nel Caucaso, dove venivano addestrati i piloti spagnoli, poiché in Spagna era scoppiata la guerra civile. Vi rimase quasi fino alla fine del 1939, quando la grossa ondata di repressioni era passata.
Nel libro ci sono due sue fotografie a distanza di 10 anni: nella seconda non sembra un uomo di neanche quarant’anni, ma semplicemente un vecchio. Non fu personalmente vittima di repressioni, ma era un idealista, credeva nell’idea del comunismo, e doveva continuamente cercare giustificazioni per gli arresti dei suoi amici e colleghi. Morì poco dopo il XX Congresso del Partito nel 1956; non poté sopravvivere al crollo della sua fede e a quell’abisso che si spalancò quando Chruščëv denunciò Stalin.
La presenza costante della memoria del Gulag
Sin dall’infanzia sono stata circondata da persone che avevano fatto ritorno dai campi di prigionia staliniani, di cui sentivo dire: “è stato/a ‘dentro’”. E mi era chiarissimo che queste persone non erano state in un posto qualunque, ma in un luogo terribile da cui erano tornate da poco.
Ma oltre al Terrore, c’era un altro tema sempre presente nella nostra vita: la memoria della Guerra.
La guerra e le “mani di mio padre”
Io sono nata quattro anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nella quale mio padre, a diciannove anni, era rimasto invalido, e la memoria del prezzo incommensurabile pagato per la vittoria non lo abbandonò mai per tutta la vita. Per questo ho intitolato il mio libro “Le mani di mio padre”.
Da un lato, si può dire che era anche il ricordo di quanto era stato fortunato. Le probabilità di sopravvivere a quella guerra per lui erano pochissime: era nato nel 1924. Il giorno in cui scoppiò la guerra, il 22 giugno 1941, aveva lasciato la casa dei suoi genitori per recarsi a Dnipropetrovsk (oggi Dnipro). Si era iscritto all’Istituto navale militare di Leningrado, voleva entrare in Marina.
Ma i suoi studi durarono solo un paio di mesi: iniziò l’assedio di Leningrado, e appena si ghiacciò la “strada della vita” sul lago Ladoga, tutti gli studenti dell’Istituto furono mandati al fronte e nominati su due piedi tenenti di fanteria.
Fu così che nel 1942, a 18 anni, mio padre si ritrovò a Stalingrado al comando di una compagnia composta da uomini che erano di norma più anziani di lui e perlopiù contadini. Di tutti i suoi 300 compagni di corso, che poi sarebbero stati conosciuti come “gli Stalingrado”, sopravvissero soltanto in 10.
Quella guerra combattuta con estrema crudeltà, l’inizio disastroso e vergognoso per l’URSS, con milioni di prigionieri di guerra, la politica di Stalin all’alba della guerra, il quasi totale annientamento dei quadri dell’Armata Rossa, e soprattutto il Patto Hitler–Stalin – tutto questo non gli avrebbe dato pace per tutta la vita.

La ferita della guerra e il ritorno
Così come gli ordini crudeli e spesso insensati che doveva eseguire, mandando i suoi soldati incontro a morte certa. Ma ebbe fortuna: nell’agosto 1943 fu gravemente ferito. Trascorse un anno negli ospedali militari, ma sopravvisse, pur rimanendo invalido.
Io ho avuto fortuna, sono cresciuta nell’atmosfera del “disgelo” sopravvenuto dopo la morte di Stalin, che costituì l’essenza della vita della mia famiglia – e in questo “disgelo” svolsero un ruolo di primissimo piano la letteratura e la lotta contro lo stalinismo cui presero parte i miei genitori.
Il disgelo chruščëviano
Nel libro ho raccontato del disgelo chruščëviano, seguito alla morte di Stalin, e di come nel 1956 iniziai la scuola e ricevetti un abbecedario in cui, per la prima volta dopo molti anni, non c’era il ritratto di Stalin. E di come dappertutto scomparirono i ritratti e i monumenti a Stalin.
Per la prima volta si aprirono i cancelli del Cremlino (oggi è impossibile immaginarselo) e, dato che vivevamo a cinque minuti di distanza, io e gli altri bambini del nostro palazzo ci andavamo a passeggiare e persino a correre con gli slittini sulla neve.
Ho scritto anche del duro colpo che rappresentò per me e per i miei genitori il 1968, con l’ingresso delle truppe sovietiche in Cecoslovacchia e la repressione della Primavera di Praga. Così crollarono le speranze di un “socialismo dal volto umano”.
Il peso delle testimonianze e Solženicyn
Ho descritto il ruolo che ebbero per me i racconti degli amici della mia famiglia sopravvissuti e tornati dal Gulag, di come nel 1974 lessi Arcipelago Gulag di Solženicyn: il libro era misteriosamente comparso a casa dei miei genitori e mi fu prestato per un giorno. Mi colpì moltissimo e anche a me venne voglia di porre domande alle persone che conoscevo su ciò che avevano vissuto.
E io stessa iniziai a registrare le testimonianze degli ex prigionieri. È vero, questo accadde già diversi anni dopo, quando ricevetti un regalo molto prezioso: un registratore portatile Philips (di fatto fu, per via indiretta, un regalo della famiglia di Solženicyn, perché mia mamma era una di quelle persone che lo avevano aiutato in Russia e che lui definì “gli invisibili”).
La nascita di Memorial
E quando cominciò la perestrojka, nacque Memorial, e il lavoro sulla memoria delle repressioni politiche assunse per me un significato del tutto nuovo. Perché per molti anni avevo svolto questo lavoro di nascosto, avevo trascritto i racconti di oltre cento persone, ma non potevo immaginare che un giorno li avrei potuti pubblicare o che avrei potuto parlarne pubblicamente.
Nel 1988 per la prima volta raccontai di queste persone e della loro memoria agli studenti dell’Istituto storico-archivistico – e non dimenticherò mai come uno studente mi chiese: “Lei ha mai visto uno stalinista in carne ed ossa?”, e io mi sentii un dinosauro.
Naturalmente, in quel momento era difficile immaginarsi che dopo vent’anni avrebbero ricominciato a spuntare in giro per tutto il Paese, come funghi velenosi, decine di monumenti a Stalin, e che nei sondaggi la maggior parte degli intervistati lo avrebbe definito un grande statista e avrebbe attribuito alla sua saggia guida la vittoria nella Seconda guerra mondiale.
Il ritorno dell’agenda sovietica
Era un’epoca di grandi speranze di cambiamento, speranze nel fatto che la Russia avesse finalmente intrapreso la strada della democrazia e della libertà.
Gli eventi si susseguirono davvero molto rapidamente. Ancora nel 1988 nessuno si sarebbe potuto immaginare che presto sarebbe caduto il Muro di Berlino. Ma nell’estate 1989 Gorbačëv pronunciò all’improvviso una strana frase: “questo Muro l’hanno costruito le persone”.
Non sembrerebbe niente di che: è ovvio che l’hanno costruito le persone. Ma chi, come me, era cresciuto e aveva vissuto in Unione Sovietica capiva bene cosa significasse: che il Muro non era eterno, se le persone l’avevano costruito potevano anche abbatterlo.
E infatti trascorsero soltanto pochi mesi e questo simbolo della Guerra fredda fu smantellato. E dopo altri due anni accadde l’impensabile: crollò l’URSS, praticamente senza spargimento di sangue.
Gli anni ’90 e l’ascesa di Putin
Era qualcosa di semplicemente inimmaginabile, che fece nascere grandi speranze. Ma fu presto chiaro che la strada verso la libertà era assai più irta di ostacoli di quanto molti avessero creduto.
La situazione economica degli anni ’90, la grave crisi, il rapido arricchimento di alcuni e l’impoverimento di altri, l’emergere del mondo criminale, e lo scoppio della sanguinosa guerra in Cecenia, che trasformò un piccolo “tumore” postcoloniale in “metastasi pericolose”.
Di conseguenza, nella società cominciò a diffondersi sempre più la nostalgia per la “tranquilla” epoca di Brežnev, di cui molti ora avevano una visione idilliaca. Tutto ciò rese possibile l’arrivo al potere di una persona come Putin.
La retorica sovietica
Ma pochi allora percepirono il pericolo rappresentato dall’ascesa di questo individuo, all’apparenza non troppo degno di nota, legato al KGB. Rispetto al vecchio e malato El’cin, sembrava composto, sportivo e moderno.
Ma noi di Memorial sentimmo presto com’era cambiato il clima politico, tanto più che poco dopo iniziò la Seconda guerra in Cecenia. E iniziò un graduale ritorno dell’agenda sovietica: non solo fu rispristinato il vecchio inno sovietico, ma si cominciò un po’ alla volta a riscrivere la storia, soprattutto quella della Seconda guerra mondiale, che divenne motivo d’orgoglio nazionale e patriottismo, ragion per cui ne furono progressivamente cancellate tutte le macchie e le lacune.
Sempre più spesso si parlava non delle vittime o del prezzo smisurato della vittoria, ma del fatto che la Russia era sempre stata una fortezza assediata, che l’Occidente era sempre stato contro di lei. In Russia il Giorno della Vittoria, il 9 maggio, cessò di essere un giorno di appello alla pace e fu imbevuto invece di spirito militarista e nazionalista.
Il libro nel nuovo clima politico
Questo mio libro è uscito da parecchio tempo, nel 2017, già dopo l’annessione della Crimea e dopo la designazione di Memorial come “agente straniero”. A poco a poco il regime di Putin diventava sempre più repressivo, cresceva il numero dei prigionieri politici, e politici d’opposizione, giornalisti, attivisti erano costretti a lasciare il Paese.
Ma fino all’inizio della guerra, e anche dopo lo scioglimento di Memorial da parte della Corte Suprema alla fine del 2021, non potevo immaginare che anch’io avrei dovuto andarmene.
Eppure, dopo lo scoppio della guerra, le perquisizioni, la confisca della nostra sede, come molti membri di Memorial ho lasciato la Russia. Fin dall’inizio sapevo che per me quella partenza sarebbe stata molto probabilmente definitiva, perché finché Putin resta al potere sarà impossibile tornare.
Il crollo di un mondo
Le cronache del 2022 dall’Ucraina – i crimini dell’esercito russo a Buča, Mariupol’, la distruzione delle città ucraine – erano talmente agghiaccianti da mettere in ombra tutto ciò che stava accadendo nei primi mesi dell’emigrazione.
Nessuno di noi poteva immaginare che nell’autunno del 2022 Memorial avrebbe ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Quando all’improvviso sullo schermo del mio computer, nel feed di notizie, apparve l’annuncio che Memorial, insieme all’organizzazione ucraina Center for Civil Liberties e al difensore dei diritti umani bielorusso Ales’ Bjaljacki, aveva vinto il Premio Nobel, sembrava incredibile.
Che Memorial ricevesse il Premio Nobel per la Pace quasi cinquant’anni dopo Andrej Sacharov, il primo presidente dell’associazione, era un onore straordinario.
Ma era impossibile non pensare al fatto che allora Sacharov aveva dedicato il suo discorso di accettazione ai prigionieri politici sovietici; e ora che, cinquant’anni dopo, Memorial riceveva lo stesso premio, i prigionieri politici nella Russia di Putin erano più numerosi che all’epoca di Brežnev. Era doloroso rendersene conto.
La nuova guerra “senza dopo”
Da allora sono passati tre anni, e la guerra con l’Ucraina si può ormai paragonare per durata a quella che per tutta la mia vita è stata “la guerra” per eccellenza. Fino al 24 febbraio 2022, quando le parole con cui sono cresciuta – “prima della guerra”, “durante la guerra” – hanno assunto un senso del tutto diverso.
Ma soprattutto, avevo sempre saputo cosa voleva dire “dopo la guerra”. Ora invece è assolutamente impossibile immaginare quando arriverà questo “dopo la guerra”, e che cosa verrà dopo. Oggi nessuno sa come finirà questa guerra.
È doloroso rendersi conto che l’opera di divulgazione a cui ci siamo dedicati in Memorial, e che dava un senso alla nostra vita – la convinzione che, quando la gente avesse finalmente conosciuto tutta la verità, essa non avrebbe potuto non trionfare, lo scopo stesso per cui nel 1989 fu fondata Memorial – è stata sconfitta.
Quanti documenti, materiali, ricerche, libri sul passato sovietico sono stati pubblicati in questi anni! Quanto si è scritto sugli effetti mai superati del terrore politico, sul tradimento, la delazione, la codardia e l’opportunismo. Per poi vedere quanto di tutto ciò oggi torna a fare capolino.
È dura accettare che ci siano così tante persone che credono alla propaganda, che sostengono Putin o, peggio ancora, che preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia e fingere che tutto vada bene.
Il presente senza casa
Mi chiedono spesso se spero di tornare un giorno a Mosca. Ma la Mosca di oggi non significa per me “tornare a casa”. Quella casa, anche se fisicamente c’è ancora, seppur vuota e chiusa a chiave, in realtà non esiste più.
E non c’è più Memorial, né quell’opera comune che ci univa tutti. E naturalmente non mi abbandona mai l’ansia per tutti i miei conoscenti e amici, perché le leggi diventano sempre più repressive, cresce la censura, la gente viene perseguitata per un link, per un gesto contro la guerra, per aver cantato in strada una canzone proibita, per aver deposto dei fiori nel posto sbagliato.
I libri di storia vengono riscritti, l’educazione dei bambini diventa sempre più militarista e nazionalista. Oggi si vede una luce in fondo a questo tunnel? Esiste ancora una speranza?
Eppure, sempre più spesso ricordo come, quarant’anni fa, chiedevo alle donne sopravvissute al Gulag: “In che cosa speravate?” In una situazione senza speranza, con una condanna a venticinque anni di Gulag, poi l’esilio eterno alla Kolyma. Potevano forse immaginare di rivedere mai Mosca, se non nei sogni?
E ricevevo la risposta: “In niente. Semplicemente speravamo…”
L’Italia come orizzonte culturale
Ma naturalmente, nel ricevere questo premio oggi a Udine, non ho potuto non pensare anche al significato che la cultura italiana ha avuto per me e per le persone della mia generazione, che mai avrebbero pensato di poter un giorno visitare Roma, Firenze, Venezia, Milano…
Per me tutto questo è stato reso possibile dalla perestrojka, nonché dagli storici italiani e dalle università italiane che ci hanno creduto: sono arrivata in Italia nel 1991 e per tutto il viaggio ho parlato della memoria delle vittime del Gulag.
Non avevo mai pensato di poter vedere l’Italia con i miei occhi. E naturalmente non si trattava solo dei monumenti artistici e architettonici, ma degli eventi che vi avevano avuto luogo nel XX secolo, il fascismo e la guerra, e dell’influenza che aveva avuto la cultura italiana, i libri di Primo Levi, Carlo Ginzburg.
Per non parlare poi – è praticamente un luogo comune – del cinema italiano: nel mio libro scrivo di Andrej Tarkovskij, con cui mio padre lavorò per diversi anni, e indubbiamente il cinema sovietico del periodo del disgelo fu fortemente influenzato dal neorealismo italiano, ma ovviamente anche i film di Fellini, Antonioni, Bertolucci rappresentarono per noi una tradizione culturale di straordinaria importanza.
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