Approfondimenti · 9 Agosto 2025

Storia e identità della destra italiana

La storia del Msi è un caso unico in Europa: Marco Tarchi e Antonio Carioti ne ripercorrono l’evoluzione nel libro Le tre età della fiamma, tra nostalgia, ambizioni mancate e trasformazioni fino a Fratelli d’Italia

Ernesto Galli della Loggia intervista Marco Tarchi e Antonio Carioti

Chi voglia comprendere davvero le trasformazioni della destra italiana nel secondo dopoguerra non può eludere l’analisi di un partito tanto controverso quanto unico nel panorama europeo: il Movimento Sociale Italiano. A questa vicenda – e alle sue successive metamorfosi, da Alleanza Nazionale fino a Fratelli d’Italia – è dedicato Le tre età della fiamma (Solferino, 2024), il nuovo libro di Antonio Carioti e Marco Tarchi. Un saggio importante, che aggiorna e amplia in modo decisivo un precedente lavoro del 1995, scritto sempre a quattro mani. Come scrivono gli autori, si tratta della storia dell’unica formazione politica direttamente erede dei regimi dell’Asse che in Europa sia stata ammessa nel gioco democratico dopo il 1945.

Marco Tarchi, oltre a essere oggi uno dei più autorevoli studiosi italiani di scienza politica, ha vissuto in prima persona una parte significativa di questa storia: militante e dirigente del Msi tra gli anni Settanta e Ottanta, è stato tra i protagonisti della Nuova Destra prima di abbandonare l’attività politica per dedicarsi alla ricerca.

La sua testimonianza, e il suo sguardo critico, aggiungono al libro un interesse particolare, come si evince anche nel dialogo seguente con Ernesto Galli della Loggia, in esclusiva per il Circolo della Storia.

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Com’è nata l’idea di questo libro? Perché tornare oggi sul Movimento Sociale Italiano?

Carioti: «L’idea è nata molto tempo fa. Questo libro è la riscrittura radicale di un’intervista che pubblicammo nel 1995, al tempo della Svolta di Fiuggi. Allora il Msi usciva dall’isolamento ed entrava nella scena politica. Ero colpito dalla persistenza di questo mondo politico, anche dopo che il fascismo aveva concluso la sua parabola in maniera talmente disastrosa. Così conobbi Tarchi, che dopo l’espulsione dal partito si era impegnato in una riflessione culturale con la cosiddetta “Nuova Destra”. Da lì nacque un confronto, e poi un’amicizia».

«Quel primo libro, Cinquant’anni di nostalgia, segnò un cambio di prospettiva, perché aveva tentato, forse per la prima volta, un’analisi storica e politologica del Msi. Oggi, trent’anni dopo, con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e la fiamma tricolore ancora nel simbolo, ci è sembrato necessario tornare su quella vicenda. Abbiamo aggiornato tutto, inserendo il percorso di Alleanza Nazionale, il Popolo delle Libertà, il populismo, e infine il successo di Fratelli d’Italia. E così è nato Le tre età della fiamma. La prima età è quella del Movimento sociale italiano, la seconda quella di Alleanza Nazionale e ora siamo entrati nella terza».

Nel libro colpisce il giudizio durissimo di Tarchi sulla leadership del Movimento Sociale. Perché una critica così netta e inappellabile?

Tarchi: «Ho cercato di mostrare come, lungo tutta la parabola del partito, sia mancata una strategia complessiva. Ha sempre prevalso la tattica. L’idea di valorizzare l’area di consenso conquistata in termini di reale incidenza politica è stata quasi del tutto assente».

«Unica eccezione parziale è stata la segreteria di Arturo Michelini, con la cosiddetta “strategia dell’inserimento”, che però fu condotta in modo disorganico, affidandosi a mediazioni opache e accordi sottobanco, senza una visione sistemica».

Gianfranco Fini e Pino Rauti durante il 16o congresso del Msi a Rimini il 12 gennaio 1990

Ma alla base di questa debolezza non c’è anche un’incapacità di rielaborare l’eredità del fascismo? Un’incapacità politica, prima ancora che culturale?

Tarchi: «Questo elemento c’è stato. Anzi, paradossalmente si è accentuato dopo la fase iniziale, quando il partito cercava ancora di elaborare visioni diverse del fascismo. Nei primi anni, tra correnti interne, congressi e pubblicazioni, c’era una certa effervescenza, anche se poi non portò a nulla di stabile: anzi, fu segnata da continue scissioni e tentativi falliti di costruire movimenti alternativi».

«Ma quando il Msi accettò il Patto Atlantico e cercò poi in varie occasioni un dialogo verso il centro per contrastare il varo dei governi di centrosinistra, allora si consolidò nelle sue posizioni di destra. Proprio da quel momento si interruppe ogni sforzo di rilettura critica del fascismo. Si scelse di giocare su un doppio registro: una facciata moderata verso l’esterno, e un persistente culto nostalgico all’interno».

Nel leggere il vostro libro mi ha colpito una suggestione: non c’è forse un’analogia tra il Msi e il Pci? Entrambi partiti con un’identità ideologica radicale incompatibile con l’ordine democratico, che però tentano di inserirsi nel sistema attraverso una doppiezza interna ed esterna. È una forzatura?

Carioti: «Secondo me no, ha un fondamento. In entrambi i casi c’è una dialettica costante tra identità e politica. Da un lato l’identità ideologica, forte, legata a un passato tragico nato nel contesto di una guerra civile; dall’altro la necessità di contare negli equilibri politici dominati dalla centralità democristiana».

«Entrambi, pur in modo diverso, si sono trovati a vivere questa contraddizione: parole d’ordine radicali verso l’interno, ma una prassi di adattamento e inserimento istituzionale verso l’esterno».

Qual era, in questa dinamica, la carta che il Msi pensava di giocare per uscire dalla marginalità?

Carioti: «Pino Romualdi, principale fondatore del Msi, lo disse chiaramente alla nascita del partito: l’anticomunismo assoluto. L’idea era presentarsi come la forza più determinata contro il Pci. Ma il problema era che la Democrazia Cristiana era insostituibile in quel ruolo. I missini potevano al massimo fungere da ruota di scorta, mentre la Dc preferiva semmai cooptare forze alla sua sinistra. Il Msi rimaneva bloccato, costretto a una politica tattica, senza reali margini di azione».

Questo meccanismo in qualche modo tenta di romperlo, all’interno del Movimento Sociale, la proposta della Nuova Destra, di cui Marco Tarchi è stato un protagonista. Qual era la sua proposta politica?

Tarchi: «In realtà non avevamo una proposta politica in senso stretto. Per un certo periodo molti di noi restarono dentro la corrente di Pino Rauti, cercando di modificarne alcune impostazioni. Ma la nostra era soprattutto un’azione metapolitica, ispirata all’idea del “gramscismo di destra”, come l’aveva definita Alain de Benoist in Francia».

«L’obiettivo era intervenire sulle mentalità collettive prima ancora che sull’arena politica. Volevamo sottrarci all’immagine nostalgica e passatista del Msi, per confrontarci a tutto campo con la modernità, con i nodi del post-’68, con le trasformazioni del costume, specie tra i giovani. Per questo, a partire dal 1973, organizzammo iniziative culturali che cercavano un’altra strada».

Almirante, Rauti e Gastone Nencioni nell’aprile 1972

Quindi la Nuova Destra nasce da un confronto con la sinistra, più che con l’area liberale?

Tarchi: «Esattamente. In Francia, de Benoist e il GRECE avevano già avviato un dialogo con le correnti critiche della sinistra. Anche noi guardavamo con interesse ai primi Verdi di Alex Langer, al movimento antiutilitarista nelle scienze sociali, e in parte anche a realtà come Comunione e Liberazione».

«Quello che ci univa era la critica al sistema mercantilista, all’individualismo, alla subordinazione dell’etica alla logica economica. Ma – ed è qui la differenza con la sinistra – noi volevamo anche recuperare una dimensione spirituale, identitaria, persino sacrale, che la sinistra aveva ormai abbandonato».

Non era una scommessa utopica? Una destra non conservatrice… o meglio: conservatrice solo nei valori spirituali, ma non liberale, con una condivisione di alcuni valori tipici della sinistra, come il superamento dell’economia di mercato.

Tarchi: «Probabilmente sì. Ma era anche un tentativo di andare oltre le categorie di destra e sinistra. Il secondo convegno che organizzammo, nel 1981, si intitolava proprio “Al di là della destra e della sinistra”. L’idea era quella di cercare nuove sintesi, partendo da suggestioni eterodosse, anche di provenienza “eretica”, per affrontare i limiti del modello di sviluppo dominante».

Con gli occhi dello studioso di oggi, professor Tarchi, come giudica quel tentativo? Poteva davvero diventare un’identità praticabile per la destra missina?

Tarchi: «Probabilmente no, visto che nel gennaio del 1981 fui espulso dal partito da Giorgio Almirante, senza troppi complimenti. La nostra era un’operazione metapolitica, non immediatamente politica. Cercavamo di influenzare le mentalità collettive, di aprire uno spazio di riflessione. Ma senza interlocutori disposti al dialogo, tutto restava in sospeso».

Carioti: «Non solo. La Nuova Destra era in rotta di collisione con la strategia di legittimazione del Msi, fondata sull’adesione all’atlantismo sin dal 1951. La Nuova Destra era antiamericana, contestava il concetto stesso di Occidente, quindi rompeva con quella linea».

Nel libro sostenete con decisione che non ci sia stato alcun coinvolgimento diretto del Msi nella strategia della tensione. Una tesi in controtendenza rispetto a una vulgata diffusa. Professore Tarchi, può chiarire la vostra posizione?

Tarchi: «Nel mondo neofascista c’erano sicuramente simpatie e suggestioni autoritarie: chi pensava a un colpo di Stato, chi auspicava azioni di forza. Ma dire che i quadri dirigenti del Msi abbiano partecipato attivamente alla strategia della tensione è, a mio avviso, infondato. Non esistono prove serie in questo senso».

«Certo, alcune scelte lasciano perplessi: penso alla candidatura di Vito Miceli, ad esempio. Ma Almirante, per quanto ho potuto constatare, non era per nulla attratto dall’ipotesi di un colpo di Stato. E neppure Rauti: ricordo una riunione nel 1970 in cui disse esplicitamente di lasciar perdere “i discorsi sui colpi di Stato che si sentono fare nelle trattorie romane”».

E se la domanda fosse rovesciata? Se fossero stati i servizi segreti a cercare di manovrare ambienti della destra missina?

Tarchi: «A livello di base, questo è possibile. Ci sono casi noti: Augusto CauchiMarco AffatigatoPierluigi Concutelli, anche se quest’ultimo sosteneva di non essere mai stato nel Msi. Alcuni erano transitati dalle organizzazioni giovanili del partito. Ma i vertici, per quanto posso giudicare, cercarono di evitare qualsiasi coinvolgimento».

Carioti: «È importante distinguere tra il Msi e il più ampio ambiente dell’estrema destra, che era poroso e in parte contiguo. C’era chi entrava, usciva, rientrava. In quell’area, i servizi segreti hanno sicuramente operato, sfruttando certe frange nella logica della cosiddetta “guerra non ortodossa”: usare l’estrema destra per contrastare un’ipotetica minaccia eversiva di sinistra. Penso a figure come Guido Giannettini, o Franco Freda, che pure aveva avuto legami iniziali con il Msi. Oppure a Stefano Delle Chiaie. Ma si trattava in larga parte di ambienti extraparlamentari, più che del partito vero e proprio».

Nel libro sostenete che Giorgia Meloni farebbe un grave errore politico se si dichiarasse antifascista. Perché?

Tarchi: «Per più di una ragione. Primo: se lo facesse, sembrerebbe cedere alle pressioni degli avversari. Verrebbe meno quella immagine di leader determinata, impermeabile ai condizionamenti esterni, che è parte del suo successo. Secondo: rischierebbe di alienarsi una parte, pur piccola ma non irrilevante, del suo elettorato, che percepirebbe la mossa come un gesto opportunistico. Terzo: dichiararsi antifascista significherebbe accettare l’interpretazione del fascismo imposta dai suoi avversari, senza sfumature storiche, né possibilità di contestualizzazioni. Infine – ed è l’argomento più cinico, ma non meno vero – anche se lo facesse, non servirebbe a nulla: continuerebbero comunque ad accusarla di essere fascista sotto sotto».

Carioti: «Anche perché oggi l’antifascismo viene identificato da chi se fa più acceso portavoce con una visione ideologica di sinistra. In questo contesto, chiedere a Meloni di dichiararsi antifascista equivale a chiederle di aderire a una cultura politica che le è estranea. È un errore sia concettuale sia strategico. Se l’antifascismo è questo, è ovvio che una leader di destra lo rifiuti. Personalmente, trovo sbagliato identificare l’antifascismo con una cultura progressista radicale. Ma è ciò che oggi avviene».


MARCO TARCHI è professore emerito dell’Università di Firenze, dove tuttora insegna Comunicazione politica e Analisi e teoria politica. Dirige le riviste «Diorama» e «Trasgressioni» e collabora a varie riviste scientifiche internazionali. Fra le sue pubblicazioni: Fascismo. Teorie, interpretazioni e modelli (Laterza 2003); La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova destra (Vallecchi 2010); Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (il Mulino 2015); Anatomia del populismo (Diana 2019); Fratelli d’Italia: entre héritage néo-fasciste, populisme et conservatisme (Fondapol 2024).

ANTONIO CARIOTI è nato a Reggio Emilia nel 1961. Ha vissuto a Roma e abita a Milano. Dopo aver intrapreso la professione giornalistica alla «Voce Repubblicana», nel 2004 è stato assunto al «Corriere della Sera», dove ha lavorato per oltre vent’anni. Autore del saggio Di Vittorio (il Mulino 2004) sul leader storico della Cgil, ha dedicato alle vicende dei giovani neofascisti ha dedicato anche due libri editi da Mursia, Gli orfani di Salò (2008) e I ragazzi della Fiamma (2011). Per Solferino ha pubblicato, oltre al libro con Tarchi, una serie di volumi dedicati al fascismo: Alba nera. Il fascismo alla conquista del potere (2020); con Paolo Rastelli, La guerra di Mussolini (2021); Come Mussolini divenne il Duce (2023) e 40 giorni nella vita di Mussolini (2025). Da settembre inizierà a collaborare anche con il Circolo della Storia.

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Ernesto Galli della Loggia

È professore emerito di Storia contemporanea e dal 1993 collabora come editorialista per il “Corriere della Sera”.
Dal 2005 al 2007 è preside della facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove ha insegnato Storia Contemporanea fino al 2009. Dal novembre dello stesso anno ha la stessa cattedra presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM) e direttore del corso di dottorato di ricerca in Filosofia della Storia in collaborazione con l’Università Vita-Salute San Raffaele.
L’ultimo libro pubblicato è “Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista”.

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