Approfondimenti · 23 Novembre 2024

Winston Churchill e l’Italia

Il primo ministro del Regno Unito aveva una grande ammirazione per l'Italia. E un rapporto molto diverso con Mussolini, rispetto a quello con Hitler

di David Reynolds

Il 30 novembre 2024 ricorrerà il 150° anniversario della nascita di Winston Churchill. Poche tra le personalità politiche del XX secolo hanno saputo catturare maggiore attenzione, tanto di segno positivo quanto negativo: come salvatore della libertà nel 1940, o come ardente difensore dell’imperialismo britannico.

Nell’uno e nell’altro caso, egli è solitamente ritratto come una figura a sé stante, artefice della propria carriera e persino della propria identità. Tuttavia, la tesi della mia ultima opera “Mirrors of Greatness: Churchill and the leaders who shaped him” è che, come per tutti gli esseri umani, anche i suoi rapporti con altre persone abbiano avuto un peso. Chi come mentore o alleato, chi come rivale o nemico. È affascinante osservare come Churchill si misurava con gli altri, e cosa loro pensavano di lui.

Prendiamo ad esempio i suoi due grandi avversari nella Seconda Guerra Mondiale: Mussolini e Hitler, che in Gran Bretagna e in America vengono spesso raggruppati nella comune categoria dei “dittatori fascisti”. Churchill ne aveva opinioni molto diverse. Per il Führer non provava altro che disprezzo, mentre considerava il Duce un grande leader che aveva malauguratamente preso la strada sbagliata. Giudizi cui si intrecciava la sua visione contrastante dei due Paesi, perché per Churchill il carattere personale affondava sempre le sue radici nel carattere nazionale.

Egli nutriva un amore profondo per l’Italia, riflesso di una passione per l’“Antica Roma” maturata sui banchi di scuola e temprata nelle lunghe ore trascorse, da giovane soldato, a leggere il classico del XVIII secolo di Edward Gibbon, “Declino e caduta dell’Impero romano. Oltre a ciò, Churchill era memore del ruolo svolto dall’Italia quale fedele alleato della Gran Bretagna nel 1915-18, superando Caporetto e altre catastrofi.

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Ancor più importante era l’apprezzamento di Churchill per Mussolini come leader forte che aveva respinto la “marea rossa” che minacciava di sommergere l’Europa a seguito della Rivoluzione bolscevica del 1917. In visita a Roma nel 1927, astenendosi dal commentare i metodi spesso brutali del Duce, dichiarò: «Se fossi stato italiano sono sicuro che sarei stato con voi, con tutto il cuore, dal principio alla fine della vostra lotta vittoriosa contro gli appetiti e le passioni bestiali del leninismo».

Un atteggiamento assai diverso da quello mostrato verso la Germania nazista. Nato nel 1874, tre anni dopo che Bismarck aveva sconfitto la Francia e fondato il Reich tedesco, Churchill considerava la Germania moderna una nazione inventata, priva di profonde radici storiche.

Era convinto che a guidarla fossero le pulsioni del militarismo e dell’aggressione, come dimostrato dall’atroce carneficina del 1914-18. Al suo rispetto per Mussolini come leader pioniere del fascismo che aveva combattuto il bolscevismo si contrapponeva il suo disprezzo per Hitler, un delinquente uscito dai bassifondi.

Con l’avanzare degli anni ’30, la sua preoccupazione era che un uomo del genere avesse preso il controllo di quella che poteva essere la macchina da guerra più pericolosa d’Europa. Paragonò la potenza dell’Italia a quella di un piccolo mulo, contrapposta alla “tigre” tedesca.

Proprio per questo, nell’eventualità di una guerra, la speranza di Churchill era di avere Mussolini come alleato, o quantomeno che questi restasse in disparte. Veemente oppositore dell’appeasement verso la Germania nazista, non aveva alcun desiderio, a differenza dei paladini inglesi della Lega delle Nazioni, di scontrarsi con Mussolini per l’espansione italiana in Africa orientale. Voleva invece che il Duce collaborasse con la Gran Bretagna e la Francia per salvaguardare l’indipendenza dell’Austria.

Quando la guerra scoppiò nel settembre 1939, Mussolini se ne tenne fuori, messo in guardia dai suoi generali che le forze armate italiane non erano nelle condizioni di contrapporsi alla Gran Bretagna e alla Francia. Dopo il sorprendente collasso di quest’ultima nel giugno 1940, tuttavia, parve indispensabile gettarsi nella mischia per accaparrarsi parte del bottino. Ma il giudizio dei generali continuava a essere corretto, come dimostrò la sequela di umilianti sconfitte subite per mano dell’esercito e della marina britannici nel Mediterraneo nel 1940-41.

Poco prima del Natale 1940, rivolgendosi via radio all’Italia, Churchill addossò l’intera colpa della “tragedia” in corso al Duce. Pur non negando che Mussolini fosse “un grand’uomo”, disse agli italiani che «dopo diciott’anni di potere senza alcun freno, ha condotto il vostro Paese sull’orlo di una terribile rovina», e li mise in guardia che il loro leader, ormai finito, presto non avrebbe avuto altra scelta che «invitare Attila ad attraversare il Brennero con le sue orde di soldataglie fameliche e le sue bande di poliziotti della Gestapo». Le sue previsioni si sarebbero rivelate tristemente corrette.

Nel 1941 i tedeschi, sotto il comando del Generale Erwin Rommel, subentrarono all’Italia nella “guerra nel deserto”. L’estate del 1942, con l’esito dello scontro ancora incerto, fece da cornice a uno scambio di invettive tra Churchill e Mussolini, ormai malato.

Il Primo Ministro denunciò la «brama di conquiste e di bottino» del Duce, spinto dalla sua «natura di iena». Mussolini, infuriato, lasciò il suo letto di convalescenza per tenere un discorso davanti alla Camera fascista per la prima volta in diciotto mesi. Dichiarò che Churchill era «discendente di una famiglia ducale» e che aveva «molto sangue blu nelle vene. Nelle mie vene scorre invece il sangue puro e sano di un fabbro. E in questo momento io mi sento infinitamente più signore di quest’uomo, dalla cui bocca fetida di alcool e di tabacco escono così miserabili bassezze».

A nulla valse tale tracotanza. Nel maggio 1943, le truppe britanniche e statunitensi avevano ormai espulso tutte le forze dell’Asse dall’Africa settentrionale; in luglio, mentre liberavano la Sicilia, Mussolini fu rovesciato. Gli sbarchi alleati nel Meridione spinsero Hitler a occupare l’Italia a nord di Roma. Mussolini fu prelevato da un commando tedesco e posto a capo di un regime fantoccio nazista in Italia settentrionale. Questa fu l’ultima agonia dell’Italia: diciotto mesi di brutale occupazione e conflitto civile.

Fino all’ultimo, Churchill continuò a nutrire sentimenti ambivalenti nei confronti di Mussolini. Alla fine dell’aprile 1945, Mussolini e la sua amante furono catturati da una pattuglia partigiana e sommariamente fucilati. Churchill vide le fotografie dei loro corpi appesi a testa in giù alla pensilina di una stazione di servizio fuori Milano. Nelle sue memorie, ammise di esserne rimasto «profondamente scioccato», aggiungendo tuttavia che «almeno al mondo è stata risparmiata una Norimberga italiana».

La rapida fine del Duce era ciò che Churchill avrebbe desiderato per il Führer, anziché il lungo processo giudiziario su cui insistevano gli Stati Uniti. A una riunione di Gabinetto arrivò persino a dire, in un motto di spirito, che si sarebbe dovuta usare una “sedia elettrica” per sbarazzarsi di Hitler, come era consuetudine fare con i “gangster” in America. «Senza dubbio», aggiunse, ci si sarebbe potuti procurare una di queste sedie dal governo statunitense nel quadro del Lend-Lease.

Nel pronunciare un verdetto finale sul Duce nelle sue memorie di guerra, Churchill non rinunciò ad attribuirgli ancora più di un accenno di grandezza: «Così finirono i ventun anni di dittatura di Mussolini, durante i quali aveva risollevato il popolo italiano dal bolscevismo in cui sarebbe potuto sprofondare nel 1919, innalzandolo a una posizione in Europa quale l’Italia non aveva mai avuto prima». Ma poi il Duce aveva preso «la strada sbagliata» nel 1940 entrando in guerra al fianco di Hitler. Fatalmente, «non comprese mai la forza della Gran Bretagna, né le persistenti qualità della resistenza dell’Isola e della potenza marittima. Così marciò verso la rovina». E poi l’ultimo affondo: «Le sue grandi strade resteranno un monumento al suo potere personale e al suo lungo regno».

Non era il monumento alla grandezza che Winston Churchill immaginava per se stesso. Visse fino a 90 anni, tornando a ricoprire il ruolo di primo ministro tra il ’51 e il ’55, e alla sua morte nel 1965 gli furono riservate esequie di Stato a Londra. Eppure, i suoi ultimi anni furono adombrati dalla malinconia.

Una sera, seduto mestamente a tavola, affermò: «Ho lavorato duramente tutta la vita, e ho ottenuto molti risultati, ma alla fine non ho ottenuto NULLA». Queste parole sono soltanto un riflesso dell’inevitabile autocommiserazione degli anziani? Oppure rivelano una profonda angoscia esistenziale per ciò che era riuscito a realizzare? L’impero di Mussolini era sorto e tramontato, ma lo stesso era accaduto all’Impero britannico, per cui aveva combattuto per tutta la vita. Ascesa e declino. Questa è stata la sorte di tutti gli imperi. Persino dell’Impero di Roma.

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