Approfondimenti · 27 Settembre 2025

Generali contro: la guerra (nascosta) che spaccò l’esercito italiano

Lo storico Jacopo Lorenzini ricostruisce nel suo ultimo libro il difficile passaggio delle forze armate dalla monarchia alla Repubblica, tra fedeltà incerte, ambizioni atlantiche e tentazioni eversive

Antonio Carioti intervista Jacopo Lorenzini

Cosa succede quando un esercito monarchico si ritrova all’improvviso a servire una Repubblica democratica? Quali tensioni nascono quando i generali devono scegliere se difendere i confini dall’invasione sovietica o trasformarsi in un baluardo ideologico contro il comunismo interno? E quanto fu reale il pericolo di golpe in Italia negli anni Sessanta e Settanta?


A queste domande prova a rispondere Jacopo Lorenzini nel suo ultimo libro, I colonnelli della Repubblica. Esercito, eversione e democrazia in Italia 1945-1974, appena uscito per Laterza. Un volume che racconta, attraverso fonti inedite, il difficile passaggio dell’esercito italiano da istituzione monarchica e fascista a corpo repubblicano e atlantista.

Sullo sfondo, c’è lo scontro tra due visioni inconciliabili della missione delle forze armate: da un lato l’esercito “regolare” e apolitico, dall’altro quello “ideologico”, chiamato non solo a fronteggiare un’eventuale invasione sovietica, ma anche a combattere la guerra rivoluzionaria contro un presunto o reale “nemico interno”.


Antonio Carioti ne ha parlato con l’autore, in questa intervista per il Circolo della Storia.

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Lorenzini, partiamo dalla Resistenza. Molti ufficiali che poi avranno un ruolo importante nella Repubblica scelsero, dopo l’8 settembre, di combattere contro i tedeschi e la Repubblica Sociale. In che modo questa scelta influì sul futuro delle forze armate?

È una domanda cruciale. Nel libro mi occupo soprattutto del dopoguerra, ma il biennio 1943-45 è decisivo. Già prima del luglio 1943 i legami di fedeltà tra il corpo ufficiali, la monarchia e il fascismo erano incrinati: le sconfitte in Africa, in Grecia e in Russia, l’invasione della Sicilia e la dipendenza dalla Germania avevano minato profondamente la loro fiducia nel regime e nella monarchia.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre, molti ufficiali mantennero formalmente il giuramento al re, ma più che per fedeltà lo fecero perché vedevano nella prosecuzione della guerra al fianco degli Alleati l’unica via di salvezza per lo Stato italiano.

In pratica, la monarchia diventava un pretesto per difendere la sopravvivenza dell’istituzione militare e dello Stato. Il confronto tra le direttive prudenti dello Stato Maggiore e l’impegno concreto di molti ufficiali nella Resistenza testimonia bene questo scarto: sul campo, vari comandanti combatterono con determinazione al fianco delle formazioni partigiane, anche quelle politicamente lontane dalla tradizione monarchica.

Lei sottolinea che la fine della monarchia lasciò un vuoto di riferimento per l’esercito. L’adesione alla Nato diventò una sorta di surrogato?

Sì. In Italia la transizione non fu solo dalla monarchia alla Repubblica, ma da un esercito concepito come strumento imperiale a un ruolo decisamente più limitato. Negli anni Cinquanta i Carabinieri, ad esempio, erano numericamente più consistenti e più presenti dell’esercito vero e proprio. Per molti ufficiali questo significava il rischio di marginalizzazione e persino di scomparsa dell’istituzione militare.

In questo contesto l’integrazione sovranazionale offrì una prospettiva: prima con il progetto della Comunità Europea di Difesa, poi tramontato per l’opposizione francese. E dunque con la Nato, che divenne un punto di riferimento imprescindibile.

Per gli ufficiali più giovani significava poter immaginare una carriera, vedere un futuro per l’esercito non solo come forza di ordine pubblico, ma come presidio a difesa dei confini. Sul piano simbolico, la Nato assunse quel ruolo di “garante esterno” alle logiche parlamentari che prima era stato interpretato dalla monarchia.

Rodolfo Pacciardi

In questo quadro emerge la figura del ministro Randolfo Pacciardi. Perché è così importante?

Pacciardi segna una svolta. Si fa garante del primo piano di riarmo del Dopoguerra, tra fine anni Quaranta e inizio Cinquanta, culminato con la mobilitazione per la crisi di Trieste nel 1953-54, percepita come un successo dagli stessi militari. Inoltre, conduce una parziale epurazione dei vertici, tagliando le ali più estreme, e aprendo spazi di carriera a ufficiali repubblicani o comunque in sintonia con la linea atlantista.

Il suo intervento non eliminò del tutto le eredità del passato, ma rese evidente che, per aspirare ai vertici, era necessario allinearsi a una visione repubblicana e filo-occidentale. Da quel momento l’adesione alla Nato divenne una scelta non solo obbligata, ma anche convinta, almeno per chi ambiva a ruoli di rilievo.

Nel 1959 si dimisero contemporaneamente il capo di Stato Maggiore della Difesa, Giuseppe Mancinelli, e quello dell’Esercito, Giorgio Liuzzi. Perché?

Le interpretazioni sono diverse, ma io credo che le dimissioni vadano collegate all’installazione dei missili nucleari Jupiter, americani, in Puglia. Dal punto di vista tecnico, molti militari ritenevano quella scelta rischiosa e inutile: faceva dell’Italia un bersaglio immediato in caso di conflitto nucleare, senza aumentarne realmente la capacità di difesa. Alcuni militari italiani ritenevano che la tenuta politica e sociale del paese fosse in grave pericolo, in caso di attacco nucleare sovietico.

Sul piano politico, invece, lo schieramento dei missili veniva vissuto da alcuni ufficiali come un riconoscimento del ruolo dell’Italia all’interno della Nato. Una sorta di ricostruzione di una dignità, dopo la fine della guerra. Questo contrasto tra valutazione tecnica e considerazione politica spiega, secondo me, il gesto dei due vertici militari.

Giuseppe Mancinelli

Arriviamo a Gladio. Lei la descrive come un progetto che aveva un senso dal punto di vista tecnico-militare, ma che nel contesto italiano divenne un elemento problematico. Perché?

La logica delle reti stay behind era comune a tutti i paesi europei: predisporre una struttura clandestina capace di organizzare una resistenza in caso di invasione sovietica. Poteva avvenire da est, ma da un certo punto in poi anche da nord, attraverso l’Austria neutralizzata. Ora ci può sembrare una prospettiva poco concreta, ma non lo era allora.

In Italia, però, il contesto politico e sociale era altamente polarizzato. Nel nord est, dove la minaccia jugoslava e poi quella sovietica erano percepite come più concrete, Gladio divenne facilmente strumentalizzabile.

Inoltre, la sua collocazione al di fuori della catena di comando militare ordinaria, necessaria per mantenerne la segretezza, la rese di fatto incontrollabile. All’inizio degli anni settanta alcune sue diramazioni furono sciolte e ricostituite perché ritenute inaffidabili dalle stesse istituzioni militari: segno che il rischio di deviazioni era reale.

Negli anni Sessanta prende corpo il dibattito sulla “guerra rivoluzionaria”. Perché questo tema divise così profondamente l’esercito?

Perché rifletteva due diverse concezioni della missione delle forze armate. Da un lato c’era chi riteneva l’esercito italiano troppo debole per affrontare una guerra convenzionale e proponeva di concentrarsi sull’ordine interno, in ottica preventiva, avendo ben presente le idee e le teorie espresse nel contesto della lotta per l’emancipazione del terzo mondo. Dall’altro lato c’era chi puntava sulla ricostruzione di un esercito regolare, in grado di difendere i confini da una possibile offensiva sovietica.

Queste due scuole si confrontavano sulle riviste militari e in tutti i luoghi dell’istituzione, dall’Accademia fino al Centro Alti Studi Militari. Entrambe le correnti dialogavano con le amministrazioni statunitensi, che erano divise anche al proprio interno tra posizioni differenti, ad esempio fra Casa Bianca, Pentagono e Cia.

Questo dibattito attraversa tutti gli anni Cinquanta. Poi però, con gli anni Sessanta, alcuni degli esponenti di queste due fazioni arrivano a occupare i vertici militari. E lo scontro diventa allora decisamente più serio.

Giovanni De Lorenzo

I due generali simbolo di questo scontro sono Giovanni De Lorenzo e Giuseppe Aloia. Perché la loro contrapposizione è così emblematica?

De Lorenzo, ex partigiano, rappresentava una visione ortodossa: voleva un esercito regolare, separato dalla politica, con la guerra non convenzionale lasciata ai servizi segreti e ai Carabinieri. Aloia, invece, incarnava la corrente favorevole a un esercito completamente ideologizzato, pronto a contaminarsi anche sul terreno politico, per essere in grado di combattere la guerra rivoluzionaria ad armi pari contro i propri avversari. Che erano identificati in tutto l’apparato comunista: non solo il partito, ma anche i sindacati, le formazioni giovanili e i circoli culturali.

La contrapposizione non fu solo personale: dietro di loro c’erano gruppi di ufficiali con concezioni opposte. I delorenziani contro gli aloiani, potremmo dire.

Alla fine, però, entrambi uscirono di scena: De Lorenzo travolto dallo scandalo Sifar, per via delle schedature di personaggi pubblici effettuate dal servizio segreto militare; Aloia mandato in pensione senza le proroghe che erano sempre state concesse ai suoi predecessori. Con gli occhi di oggi si fa fatica a mettersi nei loro panni. Però, se immaginiamo la responsabilità di un ufficiale di quel tempo, convinto di operare nel contesto di una lotta contro il comunismo globale che stava avanzano in tutto il mondo e che sembrava pronto a invadere l’Europa occidentale… la domanda su cosa fare è naturale che se la fossero posta. Lo scontro fra generali nasceva appunto da risposte diverse a questa stessa domanda.

All’inizio degli anni Settanta si affacciano i tentativi di golpe, come quello di Junio Valerio Borghese, ex comandante della Decima Mas, nel dicembre 1970. L’Italia corse davvero il rischio di una svolta autoritaria?

Credo di no. Quei tentativi rivelano piuttosto la sconfitta di quell’opzione. Un colpo di Stato fallito delegittima chi lo ha tentato, come scrisse già allora Guido Giannettini, uno dei teorici del golpe come strumento di intervento politico. I vertici militari di inizio anni settanta erano in gran parte contrari alla soluzione golpista e lavorarono per impedirla; la maggioranza degli ufficiali e soprattutto i militari di leva non avrebbero mai seguito una simile avventura.

Certo, c’erano ambienti politici, militari e industriali che guardavano con simpatia a soluzioni di forza, ma la possibilità che in Italia si verificassero scenari come quello greco, cileno o turco mi sembra a volte sopravvalutata. Non ce n’era bisogno, del resto, e i più avvertiti tra i vertici politici e militari se ne rendevano conto.

Lei è molto critico verso il potere politico, accusato di non aver fatto il proprio dovere nei confronti delle forze armate. Scrive che è stato “molto carente”. In che senso?

Non è un discorso antipolitico, ma di responsabilità. Le scelte di politica estera e di sicurezza hanno conseguenze dirette sulla pianificazione militare. Non si può fingere che non sia così. Alcuni leader politici hanno tollerato interpretazioni radicali o ambigue della scelta atlantista, salvo poi scandalizzarsi quando ne sono emerse le conseguenze.

I militari si muovono dentro un sistema interconnesso, ma la responsabilità ultima resta politica: del governo, del ministro della Difesa, del capo dello Stato. In più di un’occasione, a mio avviso, questa responsabilità non è stata esercitata con la necessaria attenzione al fragile equilibrio della giovane Repubblica.


JACOPO LORENZINI – è ricercatore all’Università di Bologna, dove si occupa di storia delle istituzioni militari in ottica globale. Ha studiato l’evoluzione dei corpi ufficiali sette-ottocenteschi nell’area italiana e francese e la mentalità militare italiana nell’età della guerra fredda. Ha pubblicato anche Uomini e generali. L’élite militare nell’Italia liberale (1882-1915) (FrancoAngeli 2017) e L’elmo di Scipio. Storie del Risorgimento in uniforme (Salerno Editrice 2020, Premio Friuli Storia 2021).

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Antonio Carioti

È giornalista professionista. Dopo aver intrapreso la professione alla «Voce Repubblicana», ha lavorato per oltre vent’anni al «Corriere della Sera». Tra le sue pubblicazioni: Di Vittorio (il Mulino, 2004), Gli orfani di Salò (Mursia, 2008) e I ragazzi della Fiamma (Mursia, 2011). Per l’editrice Solferino ha pubblicato il libro intervista con Marco Tarchi Le tre età della Fiamma (2024) e alcuni volumi sul fascismo: Alba nera (2020), La guerra di Mussolini (con Paolo Rastelli, 2021), Come Mussolini divenne il Duce (2023), 40 giorni nella vita di Mussolini (2025). A febbraio del 2026 uscirà una sua biografia di Giovanni Amendola, edita da Laterza.

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