Approfondimenti · 8 Novembre 2025

Imprese, amori e la spada nella roccia. Così Artù è diventato re

Dal silenzio delle prime cronache al trionfo della leggenda: così un oscuro condottiero romano-britanno divenne il re di Camelot, signore di Excalibur e dei cavalieri della Tavola Rotonda, viaggiando nei secoli tra storia, mito e rinascite letterarie

di Francesco Marzella

Artù e la corte di Camelot. Epiche imprese e tragici amori, storie ben radicate nell’immaginario collettivo, così come i simboli associati alla figura del re: la spada usata in battaglia, Excalibur, inizialmente distinta e poi confusa con la spada nella roccia; la Tavola Rotonda, il simbolo stesso degli ideali che tengono unita la corte; il Graal, la missione più nobile e difficile da compiere. Di questo intreccio di simboli, nomi e immagini si nutre il sogno più bello che l’Età di Mezzo ci abbia lasciato.

Eppure, a voler ripercorrere a ritroso la complessa stratigrafia di racconti che ha dato forma alla storia che tutti conosciamo almeno nei suoi tratti essenziali, se si ritorna, insomma, ai testi medievali, ci si accorge che quella in cui visse Artù in realtà non sarebbe l’epoca dei cavalieri e dei castelli, ma un’età ben più antica, che vide la Britannia abbandonata dall’esercito romano e in balia delle incursioni degli Angli e dei Sassoni.

Siamo quindi a cavallo fra il quinto e il sesto secolo, quando i Romano-Britanni cercarono di opporsi agli invasori, destinati comunque a prevalere. Di questa resistenza Artù sarebbe stato proprio il protagonista, capace di regalare alla sua gente un ultimo trionfo prima della definitiva caduta.

Un misterioso silenzio

Eppure, la principale testimonianza scritta di quegli anni non lo nomina affatto. Si tratta del De excidio Britanniae (“La rovina della Britannia”), un racconto in forma di sermone in cui il religioso Gildas presenta l’invasione sassone come l’inevitabile conseguenza del comportamento poco virtuoso dei Britanni, una sorta di punizione divina.

Un silenzio, quello di Gildas, che interroga i lettori di oggi – che tendono a vedervi una prova della non storicità della figura di Artù – e che già lasciava perplessi i lettori medievali, i quali però seppero darsi una spiegazione: Artù aveva ucciso il fratello di Gildas, che si vendicò tacendo il suo nome. Del resto, nessuna vendetta è più sottile della condanna all’oblio. Artù evidentemente deve essere riuscito a evitarla, anche se passeranno dei secoli prima che il suo nome compaia fra le righe di una cronaca.  

Artù condottiero

L’Historia Brittonum, scritta in Galles intorno all’828 racconta, fra le altre cose, proprio dell’ostinata resistenza dei Britanni. A guidarli sarebbe stato Artù. Dux erat bellorum…: non un re, ma un condottiero che guidò la sua gente in dodici battaglie vittoriose, combattute in diversi luoghi dell’isola. Dodici, un numero che non sembra casuale.

In un’occasione Artù garantì la vittoria ai suoi non con la spada ma portando sulle sue spalle un’immagine della Vergine, ottenendo così che i Britanni cristiani prevalessero sui Sassoni pagani. Nella dodicesima e ultima battaglia, quella del monte Badon, uccise da solo più di novecento nemici.

Un carismatico guerriero circondato da un’aura messianica, un eroe da leggenda spinto sulla scena della storia. Come del resto confermano due luoghi prodigiosi del Galles che sono legati alla figura di Artù e vengono descritti nell’ultima sezione dell’opera, dedicata alle meraviglie dell’isola.

Solo cenni, certo. Si intuiscono, però, sotto la trama di allusioni, i tratti di un guerriero fiero e invincibile, eroe civilizzatore e uccisore di mostri, speranza della sua gente. Dei racconti, però, restano solo ombre dai contorni incerti.

La nascita di una leggenda

Passa qualche secolo. Ne passano tre, per la precisione. Da un altrove lontano nel tempo e nello spazio riemerge a Oxford un manoscritto che finalmente racconta, tra le tante cose, anche la storia di Artù. Lo possiede un ecclesiastico, l’arcidiacono Walter, e decide di affidarlo a un suo conoscente, perché traduca in latino quelle fitte pagine scritte nell’antica lingua dei Britanni.

Questo ci racconta il presunto beneficiario di un prestito tanto prezioso, Goffredo di Monmouth, volendo farci credere che la sua cronaca, il De gestis Britonum – noto anche come Historia regum Britanniae – altro non sia che una traduzione di quell’antica e rara testimonianza. In realtà la sua opera, che spazia dalle origini mitiche dei Britanni con il loro capostipite eponimo Bruto, discendente di Enea, fino al settimo secolo dell’era cristiana, deve molto alla sua fervida immaginazione e alla sua penna felice.

Le avventure di Artù, finalmente raccontate in dettaglio, ne occupano una porzione considerevole, circa un sesto dell’opera. È un Artù ancora diverso da quello che conosciamo. Non c’è Camelot, non c’è una Tavola Rotonda, ma ci sono già molti fra coloro che vi siederanno, dal fido Galvano al traditore Mordred.

Artù, promosso a re, li guida in mille imprese, riuscendo a respingere gli invasori, ma anche dando inizio a una serie di sorprendenti conquiste: il regno di questo novello Alessandro Magno somiglia quasi a una lunga campagna militare che non conosce sosta fintanto che il re non si scontra con l’altra metà del mondo, quella che è ancora sotto le insegne di Roma. Anche Roma cade, ma Artù non può raccogliere i frutti di questa ennesima vittoria perché il tradimento del nipote sta per porre fine alla sua epopea, trascinando inevitabilmente i Britanni verso un futuro infausto.

C’è molta guerra fra queste pagine scritte in uno stile avvincente, che diventano presto un vero e proprio bestseller medievale (ne restano ancora più di duecento manoscritti, un numero ragguardevole). L’amore non manca, la vita di corte neppure, ma bisogna aspettare la stagione del romanzo cortese, che è alle porte, per esplorare nuovi temi e nuove atmosfere.

Le avventure di re Artù

È sul continente, soprattutto in Francia, che Artù continua a ispirare capolavori. Come le opere di Chrétien de Troyes, che racconterà anche degli amori di Ginevra e Lancillotto e farà assistere Perceval, giovane gallese, a una processione in cui viene mostrato un misterioso oggetto. È il Graal, o meglio un graal, non ancora identificato con il calice di Cristo, ma già oggetto di una ricerca destinata poi a diventare la missione per eccellenza dei cavalieri della Tavola Rotonda.

Artù, ormai re maturo di una età pienamente feudale, sembra fare un passo indietro, lascia la scena ai cavalieri, sparsi ai quattro angoli del mondo a salvare dame rapite e a difendere i più deboli, lontano da corte ma sempre pronti a farvi ritorno per raccontare le loro avventure. Il re impugna la spada sempre più di rado, cerca piuttosto di tenere le redini del regno e amministra la giustizia, mentre alle sue spalle si tessono intrighi e si consumano tradimenti.

È una figura apparentemente più debole, eppure durante il suo regno viene ritrovata la reliquia più importante di tutta la cristianità e può compiersi una profezia nota a Merlino, che vuole un re dei Britanni sul trono imperiale di Roma. Il tradimento, però, è comunque destinato a porre fine ai sogni di gloria e all’età dell’oro della cavalleria. Nello scontro finale contro Mordred, Artù è vincitore ma abbandona il campo mortalmente ferito. Non può finire così. Il re è portato lontano, per guarire e poi tornare ancora, per guidare la riscossa dei suoi. La speranza non muore.

Il re che sarà

Non muore neanche quando nel 1191 alcuni monaci dell’abbazia benedettina di Glastonbury, nel Somerset, diranno di aver trovato nel loro cimitero i resti di Artù e della regina Ginevra: un sepolcro illustre che può dare nuovo prestigio all’abbazia e mettere a tacere le tante voci che ancora si rincorrono di villaggio in villaggio e favoleggiano di quel ritorno, di quel riscatto tanto desiderato.

La leggenda non si chiude in una tomba. I racconti anzi si moltiplicano, si arricchiscono di nuovi personaggi ed episodi. Nell’autunno del Medioevo uno scrittore inglese, Thomas Malory, cercherà di raccoglierli quasi tutti e riordinarli, consegnandoci una versione che potrebbe essere quasi definitiva dell’epopea arturiana. A lui si ispireranno poeti e autori di romanzi, e poi ancora il cinema e le serie televisive.

Dopo tanti secoli, Artù, eroe dai mille volti, continua a cavalcare fiero sull’orizzonte dell’immaginario, dando sostanza, attraverso la sua fama imperitura, alle parole che sarebbero state trovate incise proprio sulla sua tomba: “Qui giace Artù, il re che fu, il re che sarà”.


Consigli di lettura

Per approfondire, oltre al libro dell’autore di questo articolo (Francesco Marzella, Re Artù. Una biografia, Editori Laterza, 2025), si può leggere:

  • M. Aurell, La légende du roi Arthur: 550-1250, Paris, Perrin, 2007; 
  • C. Lagomarsini, Il Graal e i Cavalieri della Tavola Rotonda. Guida ai romanzi francesci in prosa del Duecento, Bologna, Il Mulino, 2020;  
  • Chrétien de Troyes, I romanzi cortesi, cur. G. Agrati & M.L. Magini, Milano, Mondadori, 1983; 
  • Robert de Boron, Il libro del Graal. Giuseppe di Arimatea, Merlino, Perceval, cur. F. Zambon, Milano, Adelphi, 2005; 
  • Artù, Lancillotto e il Graal, cur. L. Leonardi et al., Torino, Einaudi, 2020-2023; 
  • T. Malory, Storia di Re Artù e dei suoi cavalieri, cur. G. Agrati & M.L. Magini, Milano, Mondadori, 1985. 

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Francesco Marzella

Si occupa di letteratura latina medievale, con particolare interesse per l’agiografia e i testi arturiani. È Honorary Research Associate presso il Department of Anglo-Saxon, Norse and Celtic dell’Università di Cambridge, dove si è dedicato a un progetto sulla letteratura arturiana in latino. Ha curato l’edizione critica della Vita sancti Ædwardi regis et Confessoris di Aelredo di Rievaulx e della sua anonima versificazione, pubblicate nel 2017 nella collana “Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis”; è autore di Excalibur. La spada nella roccia tra mito e storia (Salerno Editrice, 2022) e di Re Artù. Una biografia (Editori Laterza, 2025). 

Scrive per le pagine culturali del quotidiano Avvenire e per la rivista Luoghi dell’Infinito.

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