Approfondimenti · 22 Febbraio 2025

La strage che non è mai esistita

Per quasi vent'anni le autorità si sono trovate al ponte di ferro, nel quartiere Ostiense a Roma, per commemorare l'uccisione di dieci donne da parte dei nazisti. Ma di quell'episodio non c'erano prove

di Paolo Pezzino

Ogni anno, a partire dal 2004 e fino al 2023, autorità comunali e rappresentanti dell’Anpi celebravano a Roma, accanto alla stele con la targa bronzea che lo ricordava, l’eccidio del Ponte dell’industria, comunemente chiamato Ponte di ferro, nel quartiere Ostiense: l’uccisione il 7 aprile 1944 di dieci donne da parte dei tedeschi, punite per avere assaltato un forno per procurarsi del pane.

Ebbene, oggi sappiamo, senza ombra di dubbio, che quell’eccidio non è mai avvenuto, si tratta di una clamorosa falsa notizia, tuttavia ripresa da autorità civili, associazioni combattentistiche, e anche storiche e storici, per circa 30 anni. Come è stato possibile?

Partiamo dalla fonte principale, in pratica unica, sulla vicenda: un giornalista romano, già inviato del “Corriere della Sera” per la cronaca, autore con Mursia di libri e romanzi sul periodo della seconda guerra mondiale, noto e stimato: Cesare De Simone, scomparso a 67 anni nel 1999.  La sua prima opera, Venti angeli sopra Roma. I bombardamenti aerei sulla città eterna (il 19 luglio e il 13 agosto 1943), pubblicata da Mursia nel 1993, ha avuto numerose ristampe.

Nel 1994, sempre con Mursia, pubblicò Roma città prigioniera. I 271 giorni dell’occupazione nazista (8 settembre ’43-4 giugno ’44): in questo libro, a p. 130,  narrava di un episodio cruento: “Una folla di donne e ragazzini dà l’assalto al forno Tesei, dove è anche un deposito di pane per i rifornimenti alle truppe tedesche di stanza a Roma. Intervengono SS e militi della GNR, dieci donne vengono afferrate di forza, portate sul ponte e abbattute a raffiche di mitra contro la spalletta di ferro. È la mattina del 7 aprile un venerdì”.

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In nota De Simone citava come fonte i mattinali della Questura e alcune testimonianza orali, in base alle quali era in grado di elencare i nomi delle dieci donne fucilate, fino ad allora sconosciuti, e l’iniziativa della parlamentare del PCI Carla Capponi, militante nei Gap, medaglia d’oro al valor militare, che dopo la liberazione, insieme ad alcune parlamentari dell’Udi, fece  apporre una lapide nel punto dell’eccidio, lapide scomparsa agli inizi degli anni Sessanta.

De Simone ritornava sull’argomento nel suo successivo libro, Donne senza nome, edito sempre da Mursia nel 1998, un’inchiesta storica sotto forma di romanzo, dove il protagonista fittizio (in cui possiamo identificare lo stesso autore) sostiene  di avere trovato documentazione dell’assalto al Mulino Tesei nell’archivio della Camera di commercio, nell’edizione italiana di una rivista della Wehrmacht, e in alcune testimonianze di abitanti del Portuense, che si ricordavano di quel mulino (peraltro inesistente con quel nome). Riporta poi a pag. 10 il testo del mattinale di polizia.

Carla Capponi, chiamata in causa da De Simone nel 1994, ritorna sull’episodio nel suo libro  autobiografico Con Cuore di donna, pubblicato nel 2000 a Milano da Il Saggiatore, alle pp. 245-246, con dovizia di particolari macabri: ammazzate come ad un mattatoio,  le donne “furono lasciate a terra tra le pagnotte abbandonate e la farina intrisa di sangue”.

Aggiungeva che i corpi furono portati all’obitorio dove avvenne il riconoscimento da parte dei parenti. La fonte di Capponi era “una compagna della Garbatella”, che le raccontò l’episodio molti anni dopo, “quando volli [scrive Capponi] che una lapide le ricordasse sul luogo del loro martirio”.

È la lapide di cui parla De Simone, poi sparita, sulla quale Capponi non ci dice niente di più. Aggiunge però che i nomi delle vittime restarono ignoti per anni, e “soltanto la paziente ricerca di Cesare De Simone li avrebbe svelati” (ma come è possibile, se i corpi erano stati riconosciuti dai parenti all’obitorio?). E quindi torniamo sempre al giornalista-storico-scrittore, come unica fonte dell’episodio (a parte il racconto di una  non identificata “Compagna della Garbatella” cui fa riferimento Capponi).

Nel 1997 per iniziativa dell’Associazione Articolo Nove fu apposta vicino al ponte una lapide in bronzo, che nel 2004 fu ricollocata dal Comune su una stele, luogo per le celebrazioni dell’eccidio ogni 7 aprile.

Foto di Sergio D’Afflitto, CC BY-SA 4.0

Eppure, a ben vedere, quell’episodio rimaneva ancora avvolto nella nebbia: l’unica fonte era De Simone, rispetto alla cui narrazione lo storico Gabriele Ranzato, nella sua fondamentale opera sulla liberazione di Roma, esprimeva più di un dubbio, a partire dal famoso mattinale di polizia citato da De Simone, senza un qualsiasi riferimento archivistico, che è risultato introvabile.

Inoltre, continuava Ranzato, “come è possibile che […] di 10 donne uccise […] non ci sia stato nessun parente che, almeno dopo la liberazione della città, ne abbia reclamato i corpi, abbia denunciato con forza l’atto barbaro di cui erano restate vittime, sapendo di trovare gran numero di forze politiche e organi di stampa disposti a farsi portatore di quella denuncia”? E perché le forze antifasciste, in particolare i comunisti, fra i più attivi a incitare alla lotta per il pane, sono rimasti in silenzio, la stampa clandestina non ne ha trattato, neanche in ambito cattolico, né ve ne è traccia nei rapporti fra fascisti e tedeschi (La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza, Bari-Roma, Laterza, 2019, pp. 477-479)?.

Tutte considerazioni condivisibili e di buon senso da parte di uno storico, noto per la sua acribia, forse il maggior conoscitore della storia della città in quel periodo. Condivisibili e condivise: la scheda sull’episodio del Ponte di Ferro nell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, un progetto realizzato dall’Anpi e dall’Istituto Nazionale Ferruccio Parri compilata da Amedeo Osti Guerrazzi, le riprendeva condividendo il forte scetticismo sull’autenticità di quell’episodio.

Ma niente succedeva, le commemorazioni venivano ripetute ogni anno, l’episodio portato a testimonianza dell’eroismo delle donne romane durante l’occupazione tedesca, fino a che…. fino a che Giorgio Guidoni, un abitante della Garbatella, appassionato di storia e collaboratore di un periodico locale, “Cara Garbatella”, andato in pensione, si è preso la briga di indagare sull’identità di quelle dieci donne, e con una ricerca accuratissima ha scoperto che esse effettivamente erano persone reali, alcune di loro antifasciste militanti, ma nessuna di loro era morta in quel luogo.

Una di esse ad aprile 2022 risultava ancora in vita, anche se ricoverata in una residenza sanitaria assistita, delle altre le date di morte variavano: tre in effetti erano state uccise dai tedeschi, ma in circostanze diverse, in altre date e località (una partigiana combattente a Carsoli, il 25 maggio 1944, e una nelle strage di Collelungo il 28 dicembre 1943 e una, di soli quattro anni, a Vicovaro il 7 giugno 1944). Le altre sono decedute nel 1963, 1966, 1970, 1979, 2008. Di tutte l’autore ci fornisce una documentata scheda biografica.

L’autore non si sbilancia sull’eccidio, si limita  “solo ad affermare con certezza che non è presente una prova documentale che confermi l’accadimento” (Giorgio Guidoni, La verità sull’eccidio del Ponte di Ferro, Roma, edizioni Cara Garbatella, 2023, p. 136). La prudenza di Guidoni è eccessiva: tutte le considerazioni svolte già da Ranzato dimostrano che non è solo questione dei nomi delle donne che lì sarebbero state uccise, è proprio l’episodio stesso che è inesistente. Il libro di Guidoni ne è la definitiva prova.

Il 6 febbraio 2024 l’Istituto nazionale Ferruccio Parri – rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, e l’Irsifar, Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza, hanno presentato alla Casa della memoria e della storia di Roma il libro di Guidoni, con gli interventi di Paola Carucci, presidente dell’Irsifar, di chi scrive, allora presidente del Parri, di Gabriele Ranzato e di Miguel Gotor, allora assessore alla cultura del Comune di Roma, in un seminario intitolato L’eccidio di Ponte di ferro tra tradizione e verità storica, certificando l’inesistenza di quell’episodio. Il Comune di Roma, approfittando anche di lavori di ristrutturazione del ponte, ha rimosso la stele con la targa di bronzo che riportava i nomi delle presunte vittime.

Perché un giornalista stimato come De Simone abbia costruito questo falso non è dato sapere, vista la sua scomparsa; posso solo presupporre che volesse rendere omaggio al coraggio di molte donne romane, resistenti con o senza armi durante l’occupazione. Tuttavia non gli sarebbero certo mancati episodi realmente avvenuti da proporre all’attenzione dell’opinione pubblica per commemorare le donne romane.

Una considerazione merita di fare: spesso la diffusione di notizie su episodi non corrispondenti a quanto  realmente avvenuto, o del tutto inventati, trova una facile amplificazione nella mancanza di verifica critica da parte di chi ne fa poi elemento di dibattito e commemorazione pubblica. Che uno storico autorevole fin dal 2019 avesse inutilmente avanzato più di un serio dubbio sull’episodio senza che nessuno, a livello di autorità civili o di associazioni combattentistiche, abbia ritenuto di verificare quelle obiezioni, e tutto sia continuato come prima, dimostra quanto la ricerca storica in Italia – ma non solo – da un lato sia essenziale per la formazione di un’opinione pubblica criticamente informata, dall’altro sia spesso disattesa da operatori nel campo della politica e della società, più interessati a diffondere e patrocinare verità ideologicamente orientate – in questo caso l’antifascismo, ma esempi si possono trovare anche sul versante opposto, basti pensare alle cifre del tutto inattendibili sugli italiani infoibati diffuse da alcune associazioni di esuli e sostenute da enti locali amministrati dalla destra – che a verificarne la fondatezza storica.

In questo caso la verità alla fine si è imposta, sia pure con molto ritardo, con l’evidenza di una meritevole ricerca di uno storico “dilettante” condotta con grande attenzione al rispetto delle “regole del mestiere”. In altri casi, purtroppo, quella degli storici resta “vox clamantis in deserto”.

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Paolo Pezzino

È stato professore ordinario di Storia Contemporanea presso l’Università di Pisa. È stato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicolo relativi a stragi nazifascisti della XIV legislatura, della Commissione italo – tedesca di storici nonché consulente della Procura militare di La Spezia in alcuni procedimenti penali relativi a stragi nazifasciste in Italia. Dal 2018 al 2024 ha presieduto l’Istituto nazionale Ferruccio Parri – rete degli istituti di storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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