Approfondimenti · 5 Luglio 2025
Luci e ombre. I comunisti italiani nella Resistenza

Nel suo nuovo libro Eroi pericolosi (Laterza), lo storico Gabriele Ranzato ricostruisce senza pregiudizi il ruolo delle Brigate Garibaldi e del Partito Comunista nella guerra di Liberazione, tra coraggio, errori e strategie politiche
Nel panorama storiografico italiano, il tema della Resistenza continua a suscitare interesse e dibattito. Se da un lato è stata a lungo celebrata come uno dei momenti fondativi della Repubblica, dall’altro non sono mancati tentativi di ridimensionarne la complessità, di enfatizzarne gli aspetti più divisivi o di ridurla a un generico fronte antifascista.
Il nuovo libro dello storico Gabriele Ranzato, Eroi pericolosi (Laterza), si inserisce in questo dibattito con un approccio rigoroso e innovativo. Lontano tanto dall’enfasi agiografica quanto dalle letture polemiche, Ranzato offre una ricostruzione dettagliata del ruolo svolto dalle Brigate Garibaldi e dal Partito Comunista nella guerra di Liberazione.
Attraverso un’analisi basata su fonti dirette, documenti e storie locali, il volume restituisce al lettore un quadro ricco di chiaroscuri, in cui convivono eroismo e pericolosità politica, azioni di grande coraggio e strategie talvolta dettate dall’incompetenza.
Eroi pericolosi è un libro particolarmente interessante, non solo per la mole di documenti proposti e analizzati, ma per il metodo utilizzato: Ranzato mette a disposizione del lettore molte fonti nella loro interezza, offrendo così un accesso diretto e non mediato ai materiali che supportano le sue tesi. È una scelta che richiede impegno, ma che premia con una comprensione più profonda dei nodi irrisolti della nostra storia.
In un’epoca in cui il discorso pubblico tende a semplificare, Ranzato invita invece a confrontarsi con la complessità. Ed è questo l’approccio da cui nasce anche questo dialogo con il Circolo della Storia. Le domande sono dello storico Paolo Pezzino, membro della giuria scientifica del premio Friuli Storia.
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Il ruolo del Partito Comunista e delle Brigate Garibaldi nella Resistenza è stato a lungo oggetto di dibattito, spesso strumentalizzato polemicamente da chi sostiene che la Resistenza sia stata monopolizzata da un partito non autenticamente democratico, visti i suoi collegamenti con l’Unione Sovietica. Perché ha sentito il bisogno di tornare su questo tema?
«Ho sentito l’esigenza di ritornare su questo tema perché ciò che spesso si dà per scontato, ovvero che il Partito Comunista abbia “monopolizzato” la Resistenza, non è stato sufficientemente approfondito. In realtà, il ruolo del Partito comunista non è oggi oggetto di negazione, ma viene inglobato in una narrazione più generale, in cui si sottolinea il contributo di un ampio fronte antifascista.
Ho iniziato questa ricerca senza una verità preconfezionata. Analizzando non solo la documentazione del Partito Comunista ma anche le storie locali, è emerso che le Brigate Garibaldi – espressione diretta del Pci – non solo furono una componente importante della lotta armata, ma lo furono di gran lunga più di tutte le altre formazioni. Dopo 80 anni, è importante restituire la verità storica senza timori politici, anche perché il comunismo nell’attualità non è più una vera opzione politica. Possiamo trattare i comunisti come protagonisti del passato, come si fa con i giacobini, riconoscendone sia i meriti sia i limiti».
Quindi perché il titolo “Eroi pericolosi”?
«Perché riassume questo doppio aspetto: i comunisti furono coloro che contribuirono in modo decisivo alla Resistenza, compiendo anche azioni eroiche. Ma furono pericolosi per il loro legame con l’Unione Sovietica, e per gli obiettivi politici che perseguivano. Certo, alcuni storici vicini al Pci hanno sostenuto che già allora Togliatti pensasse a una “via italiana” al comunismo, rispettosa delle libertà democratiche. Ma a mio giudizio questo è altamente improbabile.
È chiaro che c’è una differenza tra il concetto di “eroi” e quello di “pericolosi”. Perché l’eroicità fa riferimento a dei fatti: cioè a quegli uomini che hanno compiuto delle azioni che possono essere considerate genericamente eroiche.
Il concetto di “pericolosi”, invece, rimanda a un’eventualità. Al fatto che determinate azioni possano avere poi delle conseguenze negative… E questo, nel nostro Paese, di fatto si è concretizzato solo sul confine orientale».
E su questo torneremo dopo. Un tema molto interessante del suo libro è l’analisi della dialettica tra la dirigenza nazionale delle Brigate Garibaldi e i comandanti locali. Ce ne può parlare?
«Sì. Ho messo in evidenza una forte sfasatura tra la dirigenza delle Brigate Garibaldi – che coincideva in buona parte con la dirigenza politica del Pci nel Nord Italia – e i comandi locali. Togliatti, inizialmente, si occupava poco delle questioni militari, ma verso la fine della guerra intervenne di più.
Luigi Longo e Pietro Secchia, dirigenti delle Brigate e membri influenti anche nel Corpo Volontari della Libertà, diedero direttive ispirate a modelli poco realistici per quanto riguarda la gestione della guerriglia. È importante sottolineare che il contributo dei partigiani, in particolare delle Brigate Garibaldi, fu riconosciuto anche dagli alleati: ricordo un messaggio di Cecil Roseberry, comandante del Soe britannico in Italia, che incoraggiava a sostenere i partigiani comunisti per l’efficacia delle loro azioni ausiliarie.
Ma il limite principale della loro dirigenza fu l’incompetenza militare. Longo, per esempio, era stato solo commissario politico nella guerra di Spagna e non aveva esperienza di guerriglia. Dopo la liberazione di Roma e con l’inizio dell’estate partigiana, la dirigenza comunista fu travolta dall’entusiasmo, ritenendo imminente l’insurrezione generale. Longo propose di creare grandi “zone libere”. Ad esempio, una andava dalla Valle del Po a Savona e un’altra da Genova a Piacenza. Erano piani del tutto irrealizzabili con le forze partigiane disponibili, prive di armamenti pesanti e scarsamente addestrate».
Queste “zone libere” sembrano evidenziare una drammatica disattenzione verso il sacrificio umano. C’è, secondo lei, un’influenza “staliniana” in questa impostazione?
«È un’ipotesi plausibile, ma dalla lettura dei documenti emerge anche tanta incompetenza. Le direttive militari non tenevano conto della natura della guerriglia, fatta di tattiche “mordi e fuggi”, e proponevano di difendere territori come un esercito regolare, cosa impossibile senza uomini, armi pesanti e rifornimenti adeguati.
Certo, si può supporre una certa indifferenza alle perdite umane, ma credo che parlare di sacrificio “calcolato” sia eccessivo. Più realisticamente, vedo un misto di inadeguatezza e scarsa comprensione della situazione militare. I risultati furono disastrosi: alla fine dell’estate 1944 la gran parte “zone libere” erano state rioccupate dai tedeschi, e entro l’autunno caddero anche le più estese, quelle della Carnia, dell’Alto Monferrato e dell’Ossola. In seguito, i rigori dell’inverno e i vasti rastrellamenti tedeschi, consentiti dalla sosta dell’offensiva alleata, ridussero drasticamente la consistenza delle formazioni partigiane».

Di questo periodo sono i “protocolli di Roma”, fondamentali per il prosieguo della Resistenza.
«Esatto. I protocolli di Roma rappresentarono una svolta. La Resistenza, per superare l’inverno, fu costretta a subordinarsi formalmente agli alleati. Ai primi di dicembre Il comandante alleato del teatro mediterraneo, Henry Maitland Wilson e i rappresentanti del CLN dell’Alta Italia firmarono degli accordi che prevedevano il regolare finanziamento ed equipaggiamento dei partigiani, subordinando però tutte le loro formazioni agli ordini alleati. Questo vincolo fu accettato con imbarazzo, e Togliatti, che era a Roma come ministro del governo Bonomi, non mostrò mai di esserne informato, salvo poi incitare il Comando delle Garibaldi a non tenerne conto.
Tuttavia, nel 1945, quando Clark impose il divieto di insurrezioni senza sua autorizzazione, i partigiani decisero di disobbedire, pur di entrare nelle città almeno qualche ora prima dell’arrivo degli alleati nelle principali città del nord. Questo gesto fu simbolicamente decisivo per rivendicare il contributo autonomo della Resistenza alla liberazione».
Parliamo dei Gap, i Gruppi d’azione patriottica, cui lei dedica ampio spazio. Qual era il loro ruolo?
«Nelle città avevano una funzione innanzitutto simbolica. Dal punto di vista militare, le loro azioni non ebbero un grande impatto – i caduti tedeschi nelle azioni GAP a Milano, Genova e Torino furono meno di cento – ma furono decisive nel mantenere viva l’idea di una Resistenza attiva, visibile nelle grandi città.
Questo incoraggiò molti cittadini, soprattutto giovani, ad abbandonare la vita civile per unirsi ai partigiani. Secondo le miei valutazioni, quasi il 60% dei combattenti e caduti partigiani riconosciuti erano militari sbandati dopo l’8 settembre e renitenti alla leva di Salò, ma il 40% erano comuni civili, tra cui anche cittadini spinti alla lotta grazie all’incitamento di queste azioni.
Le azioni dei Gap provocarono rappresaglie tedesche spesso spietate. Alcuni dirigenti, come Secchia, tentarono di limitarle, chiedendo di colpire solo obiettivi di alto valore simbolico, come gli ufficiali fascisti o tedeschi. Ma io credo che non ci fossero alternative: l’unico modo per dare visibilità alla Resistenza era spesso colpire in luoghi frequentati anche da civili.
È importante ricordare che le rappresaglie e le stragi, soprattutto nelle campagne, erano sproporzionate non per un calcolo dei partigiani, ma per precisa strategia terroristica tedesca, volta a far perdere ai partigiani il consenso popolare.
È chiaro che per la nostra sensibilità di oggi ogni vittima civile è un orrore, e difatti la memoria non sempre è stata comprensiva con i partigiani a livello locale. Ma per questo esiste la storia: anche per spiegare qual era la portata del conflitto in corso, e di quanto fosse importante dare visibilità alle azioni della Resistenza italiana. Anche rispetto agli Alleati».

Abbiamo accennato prima alla situazione del confine orientale, dove la “pericolosità” di questi eroi appare ancora più evidente.
«Sì, quella del confine orientale è una pagina tragica. Lì il Partito Comunista Italiano collaborava con i comunisti sloveni, con i quali era stato raggiunto un accordo: rinviare al dopoguerra la questione della sovranità su quelle terre. Ma i comunisti sloveni non rispettarono l’accordo e puntarono ad annettere subito il territorio alla futura Jugoslavia comunista, bollando come “fascisti” coloro che si opponevano.
L’eccidio di Porzûs, dove vennero eliminati i partigiani cattolici e azionisti della Brigata Osoppo, è emblematico. Normalmente viene rappresentato – e forse da molti è stato sentito – in termini di conflitto di etnie, fra slavi e italiani. Ma dal punto di vista storiografico ci sono aspetti più rilevanti: una parte del Pci aveva accettato l’idea di sacrificare territori italiani in nome di una presunta “superiore democrazia” jugoslava.
Togliatti stesso, in un discorso a Firenze nel febbraio 1945, riconosceva i limiti che imponeva la presenza degli eserciti alleati in Italia, ma lasciava intendere che la situazione internazionale sarebbe cambiata, aprendo scenari più favorevoli ai comunisti.
Allo stesso tempo non ci sono però prove concrete che il Pci stesse preparando un colpo di mano come quello tentato dai comunisti greci. I vertici del Partito Comunista sapevano che non avrebbero potuto conquistare subito il potere, perché questo avrebbe portato a una nuova guerra mondiale che neanche Stalin si augurava».
Gabriele Ranzato – ha insegnato Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa. Si è occupato di storia della violenza, della guerra, delle guerre civili e della Resistenza. Ha pubblicato, tra l’altro, Il linciaggio di Carretta. Roma 1944. Violenza politica e ordinaria violenza (Milano 1997) e L’eclissi della democrazia. La guerra civile spagnola e le sue origini. 1931-1939 (Torino 2004). Per Laterza è anche autore di Il passato di bronzo. L’eredità della guerra civile nella Spagna democratica (2006), La grande paura del 1936. Come la Spagna precipitò nella guerra civile (2011) e La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza (2019).