Approfondimenti · 26 Luglio 2025

Persone, non ingranaggi. Il sogno industriale di Adriano Olivetti

Tra ideologia, organizzazione e responsabilità sociale, il racconto di un esperimento unico nella storia economica italiana: la ricerca di una “terza via” che superasse capitalismo e comunismo

Roberto Chiarini intervista Paolo Bricco

Adriano Olivetti è una delle figure più affascinanti e controverse del Novecento italiano. Imprenditore, intellettuale, politico, urbanista e editore: la sua memoria è stata spesso modellata – se non ingabbiata – da una narrazione celebrativa.

In questo dialogo tra lo storico Roberto Chiarini e il giornalista del Sole 24 Ore Paolo Bricco, proviamo a riportarlo al centro della sua epoca, con tutte le luci e le ombre. Dall’adesione al fascismo alla tensione verso una “terza via” tra capitalismo e comunismo, fino al tentativo di costruire un’impresa a misura d’uomo, capace di coniugare cultura, comunità e straordinario successo economico.

Paolo Bricco è autore del libro Adriano Olivetti. Un italiano del Novecento, edito da BUR, appena uscito in una nuova edizione aggiornata.


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Partiamo dal sottotitolo: “Un italiano del Novecento”. Parlando di Adriano Olivetti, questa definizione sembra persino riduttiva. Non sarebbe più proprio chiamarlo “Un anti-italiano”? Un imprenditore colto, con esperienze all’estero, un uomo d’impresa che si concepisce come attore sociale. Non solo, ma anche animato da una vocazione politica, un liberale convinto, un democratico, che dà persino vita ad una sua espressione partitica. Tutto questo non lo distingue radicalmente dagli altri imprenditori italiani del tempo?

È vero: Adriano Olivetti non è solo un uomo del Novecento. La sua figura è anche radicata nel rapporto con il padre Camillo, che appartiene profondamente all’Ottocento. Camillo era un positivista, un ingegnere ebreo che praticava un scientismo quasi estremo, un socialista rivoluzionario e insieme un imprenditore.

Adriano, invece, è novecentesco nel modo in cui si confronta con la storia e con il proprio tempo. È per questo che ho scelto quel sottotitolo: perché negli anni Venti e Trenta Olivetti assorbe molte delle caratteristiche della sua epoca, pur rielaborandole in modo originale, arrivando perfino a contraddire alcuni paradigmi interpretativi dominanti della letteratura olivettiana.

In che senso li contraddice?

Nel senso che c’è un problema serio di fonti e della loro qualità. L’immagine che abbiamo oggi di Olivetti è fortemente costruita, artificiale. Dopo la sua morte, per ragioni politiche, culturali o persino personali, è stato trasformato quasi in una figura metastorica.

Un santino, insomma.

Esattamente. Ma Adriano Olivetti è invece immerso nella storia, ne incarna a pieno le contraddizioni.

Un ritratto fotografico del 1925, con la sua firma

Compresa l’adesione al fascismo.

Sì. Negli anni Trenta è pienamente integrato nella politica fascista. Ma non per opportunismo, come altri industriali. La sua fu un’adesione quasi “ingegneristica”, figlia di una visione positivista portata all’estremo.

L’organicismo fascista e il corporativismo gli apparivano come strumenti per accedere alla modernità industriale. Nei saggi che scrive per Tecnica e Organizzazione, la rivista edita dalla Olivetti, fonde fordismo, taylorismo e un’idea organica della società.

Questo è un punto interessante che offre preziosi spunti anche per una riflessione sul presemte. Parlare della consonanza con il fascismo non vuol dire denunciare una macchia morale, ma rilevare quanto il fascismo avesse peso anche tra gli intellettuali.

Dopo la crisi del ’29, il capitalismo era in grande difficoltà. Anche i suoi fautori cominciarono a dubitare che potesse avere un futuro. Il comunismo era temuto. Così si inizia a immaginare una “terza via”, che sappia coinvolgere il lavoratore nella vita economica e sociale, senza che ciò attenti alla proprietà privata. È in questo spazio che si colloca anche Olivetti?

Sono d’accordo. E credo sia giusto sottolineare anche il contesto internazionale: molti conservatorismi europei cercavano un’alternativa al capitalismo in crisi, rifiutando però il bolscevismo. In questo scenario, l’adesione di Olivetti al fascismo si spiega meglio.

In ambito nazionale, Olivetti incarna bene la teoria di Renzo De Felice, secondo cui il fascismo godette, specie negli anni Trenta, di un consenso di massa. Olivetti non solo elabora teorie vicine a quelle fasciste, ma mantiene anche rapporti diretti con l’entourage di Mussolini.

E tuttavia, dopo la guerra, prova davvero a costruire una “terza via”, anche con esiti concreti.

Sì. L’idea, già presente negli anni Trenta, era quella di avvicinare il lavoratore alla fabbrica attraverso forme nuove di partecipazione. Nel Dopoguerra, Olivetti ne diventa un fautore convinto, sia a livello teorico che pratico.

Costruisce un modello industriale centrato sul territorio, che prova a riscrivere il rapporto tra capitale e lavoro. E cerca anche un’espressione politica, fondando un partito. Ma proprio quest’ultimo tentativo si rivelerà il più fallimentare.

Al centro di tutto c’è però il suo concetto di “comunità”: il lavoratore non è solo uno strumento di produzione, ma una persona.

Esattamente. Alcune lettere scritte dagli Stati Uniti testimoniano la sua impressione scioccata nel vedere le condizioni dei lavoratori americani, trattati quasi da schiavi. Questa paura non lo abbandona mai.

Già negli anni Trenta, Olivetti aderisce alle idee del personalismo cristiano di Maritain e Mounier. Dopo la guerra, riesce a trasformare questi principi in realtà concrete: a Ivrea e in altri luoghi in cui la Olivetti è presente, costruisce un modello d’impresa che ha una forte dimensione culturale e antropologica.

Per lui l’uomo non è né uno strumento del capitale né un soggetto rivoluzionario: è una persona. E questa è la sua “terza via”.

In questo è stato anche un precursore dell’urbanistica industriale: concepiva la fabbrica come parte integrante dell’ambiente.

Sì. Si è opposto alla tendenza a sfigurare le città industriali. Pensiamo a Torino con la Fiat, o alla Milano della Falck e della Pirelli. Lui, invece, punta a un equilibrio tra fabbrica e territorio. Ed è ossessionato dall’idea di coniugare efficienza e bellezza.

Mentre molte aziende costruiscono quartieri operai, Olivetti affida asili e case a grandi architetti e designer. E sostiene i lavoratori anche finanziariamente. Ho calcolato che, negli anni Cinquanta, un operaio Olivetti guadagnava il 40% in più rispetto a un altro metalmeccanico italiano.

C’era persino un ufficio interno che forniva tecnici, ingegneri, architetti e finanziamenti per costruire le case. In un certo senso, funzionava anche da banca.

E tutto questo si reggeva su un modello economico molto solido.

Sì, grazie a prodotti con alte marginalità e a un’organizzazione interna efficiente. La Olivetti è stata la prima azienda metalmeccanica italiana a mettere innovazione e organizzazione sullo stesso piano.

Senza quei risultati economici, non ci sarebbe stato nessun “modello Olivetti”. E oggi, forse, non ne staremmo parlando.

Ma proprio questo tradisce un limite: come può una piccola impresa italiana replicare quel modello, senza quei margini astronomici di profitto?

È la sfida per chi studia Olivetti: partire dall’industriale e dall’imprenditore. Tutto il resto viene dopo. Lui dimostra che è possibile fare impresa in modo innovativo, aggressivo, accumulando profitti e, solo dopo, provare a cambiare le regole del gioco. L’Olivetti Divisumma, una calcolatrice elettromeccanica, aveva marginalità del 90 per cento! 

Il suo modello è difficile da imitare, ma mostra una strada: internazionalizzazione, innovazione continua, coinvolgimento dei dipendenti, valorizzazione delle soft skills (in uno straordinario anticipo sui tempi).

E poi la capacità di rimescolare le carte: anche le idee apparentemente più eccentriche erano parte integrante del suo successo.

È questo, forse, il segreto della sua “terza via”: tenere insieme successo economico e attenzione per le persone che lo rendono possibile.

Sì, è esattamente questo.


Paolo Bricco, giornalista e saggista, è inviato speciale del Sole 24 Ore. Si occupa di storia contemporanea e di storia economica. Ha scritto Olivetti prima e dopo Adriano (L’Ancora del Mediterraneo 2005), L’Olivetti dell’Ingegnere. 1978-1996 (il Mulino 2014), Marchionne lo straniero (Rizzoli 2018, nuova edizione BUR 2020) e Cassa Depositi e Prestiti (il Mulino 2020).

Ha un dottorato di ricerca in Economia all’Università di Firenze. Dal 2007 al 2013 è stato membro del Consiglio direttivo dell’Archivio Storico Olivetti. Nel 2016 si è aggiudicato come saggista il Premio Biella Letteratura Industria e nel 2019, come giornalista, il Premiolino.

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Roberto Chiarini

Già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, attualmente è presidente del Centro studi e documentazione sul periodo storico della Rsi di Salò (www.centrorsi.it). I suoi ultimi studi sono Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra (Marsilio, 2013); Il governo del leader. Craxi a Palazzo Chigi 1983-1987 (Il Torchio, 2017); Storia dell’antipolitica dall’Unità a oggi. Perché gli italiani considerano i politici una casta (Rubbettino, 2021).

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