Approfondimenti · 17 Ottobre 2025
Storia del pane quotidiano. Il grano che ha fatto la modernità
Carlo Fumian racconta come la storia del grano diventi la chiave per capire trasformazioni economiche, sociali e politiche tra Ottocento e Novecento
Il libro di Carlo Fumian, uno dei tre finalisti di questa edizione di Friuli Storia, parte dal grano e si trasforma poi in una storia a tutto tondo della finanza, della politica, del costume e dello sviluppo tecnologico.
Per questo, Pane quotidiano (Donzelli, 2024) è particolarmente originale. Ha incuriosito i lettori, che compongono la giuria del premio, sia per la ricchezza delle fonti sia per la capacità narrativa: pur trattando un tema economico, mantiene il ritmo e l’attenzione di un romanzo.
In questa intervista con Roberto Chiarini, l’autore ripercorre i punti principali del libro, spiegando perché la storia del grano è tanto importante, anche per comprendere il nostro presente.
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Come è nato questo progetto così ambizioso, una storia di due secoli riletta attraverso lo spettro di una vicenda molto specifica?
«In realtà ho dato corso a uno dei miei vizi peggiori, cioè la mia vocazione alla digressione. La curiosità mi portava a esplorare ambiti paralleli a partire da singoli aspetti della storia. Ma sono stato fortunato: il lavoro si basa soprattutto su fonti americane, e ho avuto la possibilità di passare varie estati negli Stati Uniti, grazie al Center for European Studies di Harvard. In quelle biblioteche, con gli scaffali tematici aperti, trovi un libro e accanto altri su argomenti analoghi ma con approcci diversi: questo invita alla divagazione ma soprattutto alla comparazione.
La ricerca è nata una decina di anni fa, studiando la cosiddetta “grande depressione” ottocentesca, che ho cercato di affrontare anch’essa in chiave comparata. Seguendo l’insegnamento di Marc Bloch, ritengo la comparazione uno strumento fondamentale per la storia contemporanea (e non solo).
Studiando quella crisi, che in realtà fu una grande deflazione dei prezzi provocata dalla prima vera globalizzazione, mi sono interessato alle agricolture europee e americana. In Europa si diceva che la concorrenza dei grani americani strozzasse i produttori locali; ma in America si registravano rivolte contadine e movimenti di protesta. Era dunque una crisi generale del settore agricolo, che in Europa si tradusse soprattutto nella voce potente delle élite agrarie, capaci di farsi sentire nei parlamenti per chiedere protezione.
A quel punto ho individuato un filo rosso che univa tutti i nodi che stavo affrontando nella mia ricerca: la storia delle commodity».

Come definirebbe una commodity?
Sono merci di base: agricole, ma anche petrolio, minerali, gas, succo d’arancia, gomma… Hanno poche varianti qualitative e per questo vengono codificate internazionalmente, attraverso un sistema di grading (di accertamento della qualità).
Queste merci primarie possono essere dunque immagazzinate, conservate e scambiate in enormi quantità. Dalla metà dell’Ottocento, a Chicago e proprio a partire dal commercio del grano, nascono borse merci dedicate e strumenti come i contratti futures, cioè i derivati. La finanza moderna nasce lì, attorno al grano.
Alla luce dei suoi studi, la finanza che interviene in settori cruciali come il grano ha nuociuto o ha favorito la modernizzazione?
Esiste una finanza buona e una cattiva. Etimologicamente, finanziare significa fornire i capitali allo sviluppo economico. Certo, la finanza può anche alimentare sé stessa, producendo ricchezza puramente finanziaria. Ma nel lungo periodo, nel caso del grano e delle commodity, ha stabilizzato e abbassato i prezzi, nonostante gli scandali e le speculazioni.

In sintesi: la finanza crea disturbi alla produzione nel breve periodo, ma offre strumenti di razionalizzazione e sviluppo nel lungo periodo?
Assolutamente sì. Offre strumenti adeguati alla dimensione della produzione. In quegli anni, tra il 1840 e il 1914, che noi normalmente archiviamo come “belle époque”, si sviluppa la nostra contemporaneità.
E le aziende crescono talmente tanto che l’autofinanziamento non basta più e serve un enorme afflusso di capitali. Anche lo Stato diventa un attore economico.
È così che si crea una gigantesca rivoluzione commerciale, forse anche più importante della rivoluzione industriale in termini di innovazioni tecnologiche e istituzionali.
Sul piano sociale, la grande crisi agricola degli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento in Italia è una crisi del Paese intero: metà della popolazione lavorava in agricoltura e il grano era la base dell’alimentazione. Quella sofferenza diventa però anche un propulsore per la modernità del conflitto sociale, con i primi scioperi e le leghe agrarie. Significa che c’è una sofferenza, che è però anche il lievito della storia della modernità?
Credo di sì. Ma anche in questo bisogna avere uno sguardo comparato: le crisi hanno periodizzazioni diverse nei vari paesi. Parlare di “grande depressione” dal 1873 al 1896, come si fa normalmente nei manuali scolastici, è fuorviante. Non esiste una depressione unica, ma crisi differenti, che colpiscono soprattutto le economie arretrate.

E c’è la piaga dell’emigrazione.
Che è forte in Italia e in altri paesi europei, ma anche in questo caso va inserita in un contesto globale, che spesso non consideriamo. In quegli anni milioni di cinesi emigrano verso le colonie inglesi e francesi per la produzione di gomma. In Europa milioni vanno nelle Americhe o in Australia. È un periodo di dinamismo straordinario: gli stati aboliscono i passaporti, che torneranno solo con la Prima guerra mondiale.
L’emigrazione non è legata a momenti specifici di crisi: si emigra sempre, quando si può e quando c’è la speranza di trovare una vita migliore altrove.
In altre parole, da una visione comparata nel tempo e allargata nei luoghi, ricaviamo un’idea dello sviluppo storico, e della Storia in generale, che è un processo, una commistione di sofferenze e di conquiste di cui è fatto il progresso umano. Che ne pensa?
È una visione realistica. Dipende dagli osservatori: le grandi masse hanno sofferto, ma spesso hanno anche trovato un riscatto. La storia economica italiana, semplificando molto, procede bene quando si aggancia ai cicli globali: dall’età giolittiana al secondo dopoguerra.
Ma poi ci sono i casi più specifici, che sono i più interessanti. Guardare agli attori concreti, non solo ai processi astratti, permette di cogliere la carne viva della storia.
CARLO FUMIAN – È professore emerito di Storia contemporanea presso l’Università di Padova. Tra le sue pubblicazioni: Verso una società planetaria. Alle origini della globalizzazione contemporanea, 1870-1914, Donzelli, 2003; “Commercio mondiale e globalizzazioni tra XIX e XX secolo,” in Storia economica globale del mondo contemporaneo, a cura di C. Fumian e A. Giuntini, Carocci, 2019. Si è occupato a lungo di storia del terrorismo italiano ed europeo. Su incarico della Fondazione Giorgio Cini di Venezia attualmente lavora alla stesura di una biografia di Vittorio Cini.
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