Rassegna Stampa · 21 Ottobre 2025

Il brigantaggio è stato la prima guerra civile italiana

da "La rivolta del Sud dopo l'Unità. «Fu guerra civile»" di Gian Antonio Stella, Corriere della Sera, 21 ottobre 2025

Nel nuovo libro La prima guerra civile (Mondadori), lo storico Gianni Oliva propone una rilettura radicale del brigantaggio postunitario, definendolo — in linea con un’intuizione già formulata nel 1861 dal deputato Giuseppe Ricciardi — una guerra civile tra connazionali. Il libro di Oliva, scrive Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, supera le vecchie interpretazioni criminalizzanti e restituisce complessità a un fenomeno che coinvolse due terzi dell’esercito italiano e causò più vittime delle tre guerre d’indipendenza messe insieme.

Oliva osserva che la definizione di “guerra civile” è rimasta a lungo tabù nella memoria italiana: applicata solo tardi al 1943-45 (dopo il saggio di Claudio Pavone del 1991), e usata per il brigantaggio solo dagli anni Ottanta. Un pregiudizio ideologico ha frenato il termine, perché avrebbe implicato una “riabilitazione” dei vinti. Ma riconoscere la natura civile del conflitto, spiega lo storico, non significa assolvere i Borboni o adottare letture neoborboniche, bensì comprendere le cause di una lunga stagione di tensioni che l’Italia unita gestì attraverso una repressione brutale e indiscriminata.

Le immagini dell’epoca, ricorda Stella, mostrano corpi di briganti decapitati o esposti nudi come trofei, da Gioacchino Di Pasquale a Michelina Di Cesare. “Fu un messaggio di potere”, scrive Oliva, “con cui la propaganda unitaria volle accreditare la propria vittoria e delegittimare gli sconfitti”. L’ordine del 1864 dopo l’uccisione di alcuni bersaglieri (“vendicateli e siate inesorabili come il destino”) riassume il clima di scontro totale.

Il libro collega la repressione al caos politico e sociale di quegli anni, in un Paese dove – citando Raffaele De Cesare – “i reazionari temevano i liberali e i liberali i reazionari, e il governo temeva tutti”. Oliva rilegge anche la tradizione meridionalista, da Villari a Fortunato, che aveva interpretato il brigantaggio come lotta di classe tra “galantuomini” e “cafoni”, poi filtrata dalla visione gramsciana del fenomeno come “terrorismo elementare” privo di guida politica.

Per Oliva, invece, la repressione del nuovo Stato fu segnata dall’urgenza di “fare in fretta”: rastrellamenti, fucilazioni, assenza di distinzione tra civili e ribelli, in una corsa all’ordine che impedì di affrontare le radici economiche e sociali del disagio meridionale. Il libro restituisce anche storie individuali, come quella di Filomena Pennacchio, giovane irpina orfana e compagna di un sergente borbonico, divenuta brigantessa, incarcerata e condannata ai lavori forzati, poi rifugiatasi a Torino, dove cercò di ricostruirsi una vita dopo aver partorito in cella un figlio chiamato “Prigioniero”.

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